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Viaggio in Portogallo - Le isole Berlengas

In questa sezione verranno pubblicati i racconti di viaggio che i nostri lettori ci invieranno. Ne pubblicheremo uno a settimana. Per inviarci i vostri resoconti e le vostre foto, scriveteci a threefacespublish@gmail.com

Buona lettura!

GUESTBOOK - I vostri racconti di viaggio

Regali dalla vita: sono nel mio quinto e ultimo mese di intercambio a Lisbona, Portogallo. Arrivo da Porto Alegre, Brasile, ed è la prima volta in Europa per me. Quando manca poco più di un mese al mio ritorno a casa, grazie a una telefonata via Skype, una mia grande amica mi avvisa che verrà a trovarmi qui.

 

Quando arriva ci perdiamo in lunghe passeggiate tra i moli e i calçados di Lisbona, nei suoi parchi. Poi arriva il grande invito. Navigare da Lisbona fino al luogo più paradisiaco del Portogallo: l'arcipelago delle Berlengas.

 

L'invito ci arriva dallo zio della mia cara amica, João, appassionato navigatore dei sette mari: era stato più o meno ovunque con la sua barca a vela, e viveva i suoi giorni viaggiando. Mi raccontò anche di aver attraversato l'oceano Atlantico partendo da Lisbona per poi arrivare a Porto Seguro, nella commemorazione dei 500 anni dalla scoperta del Brasile. Ma torniamo al nostro viaggio...

 

Localizzata a 10 chilometri da Peniche, una spiaggia a un centinaio di chilometri a nord di Lisbona, Berlenga Grande – l'isola principale – è circa 1500 metri di lunghezza, 800 di larghezza e 85 sul livello del mare (!!!). Per raggiungerla ci abbiamo messo 11 ore di navigazione, nel bel mezzo di tempeste che ci facevano dondolare senza sosta.

 

Poi finalmente siamo arrivati in questo paradiso terrestre, e dopo un bagno gelato siamo arrivati fino alla Fortaleza di S. João Baptista, risalente al 1655, dove dal 1953 hanno aperto un ristorante. La manutenzione del luogo è in mano a un'associazione, che ha provveduto anche a farne una piccola pensioncina senza troppe comodità, ma semplice e ben tenuta. Qui abbiamo pranzato con delle sardine alla brace, che i portoghesi adorano, e bagnato il tutto con dell'ottimo vino.

 

Proprio accanto al forte comincia a mostrarsi il grande spettacolo della natura: grotte e rocce che circondano da ogni lato, in ogni anfratto, il paradiso. Per quelli che hanno un'immaginazione fertile, non è difficile incontrare varie forme di animali in mezzo a quelle enormi sculture naturali: balene, elefanti...

C'è addirittura una grotta che attraversa l'isola in tutta la sua lunghezza. Troppo bello.

 

Per concludere, non potevamo perdere la possibilità di conoscere il Faro del Duque de Bragança, costruito nel 1841. Per arrivare fin qui abbiamo dovuto salire molti scalini, ma posso dire che ne è valsa davvero la pena: nei colori di un tramonto incredibile, abbiamo potuto godereci una vista panoramica su tutto l'arcipelago, avendo anche la possibilità di ringraziare per la buona compagnia, per le vecchie e per le nuove amicizie e per il grande spettacolo offertoci quel giorno dalla natura. Un viaggio indimenticabile!

 

Foto e testo di

Camila Torres Brum

da Porto Alegre, RS, Brasile

Viaggio in Nuova Zelanda - Lo chiameremo 'Ngaru

Questi sono dei brevi stralci di un viaggio lungo nove mesi, 24000 km percorsi. Irma e Matilde, fresche di laurea, decidono di realizzare un sogno a lungo meditato: viaggiare loro due sole, per scoprire il posto più lontano al mondo da casa loro, la Nuova Zelanda; alla ricerca di nuovi amici, posti da scoprire, bellezze da contemplare e, naturalmente, di loro stesse.

 

Lo chiameremo Ngaru! Tranquilli, non è un bebè in arrivo, nè un bel maori rimorchiato. E' tutto bianco, sul sedere c'ha tatuato TOYOTA ed è nato nel 1989. Ha già fatto mila e mila kilometri che manco lui se ne ricorda più: è stato piantato in asso da un paio di franciospi che l'han tradito per due biciclette snelle e smorfiose (questi si son fatti la Cina in bici, la NZ in furgone ed ora se ne vanno in Cile via aereo con la bici in stiva, anvedi sti franciospi).

Lo chiameremo Ngaru per ricordarci di un caro amico, e perchè è la parola maori per “onda”. Cambio manuale. a benzina. Tre posti davanti e un lettone dietro. Non abbiam bisogno d'altro. Si parte.

 

Gennaio 2006

Nonostante i suoi piccoli acciacchi, sembra se la cavi dignitosamente il nostro Ngaru: con i suoi finestrini cigolanti, il clacson che fa un improbabile «MBE' MBE'», il campanello che segnala quando raggiungi i 100 km orari, come a dirti «molla che me rompo!!!», il cambio laterale... Come se questo non fosse sufficiente gli abbiamo pure scritto il nome sul muso, a caratteri cubitali, lo abbiamo riempito di conchiglie tintinnanti e adesivi con i pesci. Nonostante questo c'è anche chi ha il coraggio di suonarci, alzare il medio (qui è l'indice veramente) e farci le corna se non andiamo alla velocità che dicon loro! Non hanno nemmeno un pò di pietà per un povero furgone e due neofite della guida a sinistra.

 

Se io fossi un opossum, l'ultimo posto al mondo in cui vorrei andare sarebbe la Nuova Zelanda. Ogni duecento metri, sulle ondeggianti e bucoliche strade kiwi, si staglia uno di sti toponi spiaccicato sull'asfalto. Qui gli opossum son mal visti: intere famiglie votate alla sua caccia! E te lo mostrano orgogliosi al mattino, mentre tu stai facendo colazione con ancora il cuscino sulla guancia: «Guarda che grande!», e lui lì, stecchito, ancora caldo, nell'atto di prendere la mela dalla trappola.

 

Questo sfigato marsupiale australiano è stato disgraziatamente importato in Nuova Zelanda in tempi non sospetti. Una volta sbarcato nella terra dei kiwi, quel bel topone dell'opossum, ha iniziato ad ingozzarsi di frutti e bacche copulando come un forsennato. Senza predatori, di conseguenza, ora ci son più opossum che cristiani! Ma che minchia ne sapeva lui che stava minacciando tutto l'ecosistema della Nuova Zelanda?!

 

In quanto a bestie stiam messe bene: oggi ci han mostrato un feto di squalo in formalina, con due teste. Sì, avete capito bene, con due teste.

Di notte tutti ci dicono di ascoltare il verso del kiwi, l'animale simbolo della NZ. Mah. Comincio a credere che sia 'na bufala: un uccello che non vola, che si muove solo di notte, che deve cercare i vermicelli nel terreno ed ha perso l'entusiasmo di vivere, porello. Che dire poi dei due caproni della fattoria accanto a quella in cui lavoriamo noi? Ci guardano tutto il giorno al di là della pound. Si fan belli ai nostri occhi scornandosi e scoreggiando da mattina a sera, mentre noi stiam lì piegate a estirpar rovi.

Secondo me son convinti che siamo due caprette brulicanti... Grazie a dio c'è la staccionata!

 

Aprile 2006, scritto in viaggio tra Bay View (Napier) e Oponake Beach.

Un porto a destra e una costa sconfinata a manca. La luce dorata del tramonto e le luci della città riportano la mia mente in Italia, ai nostri piccoli piccoli angoli di paradiso, dove ti accorgi di come basti poco per sentirsi al centro e sopra il mondo.

 

Un sottile sentimento, delicato come il sole d'autunno che mi sta baciando, in questa baia riparata dal vento; un dolce mormorio dell'anima, che arriva ai miei posti dall'altro capo del mondo, li percorre uno a uno con la memoria, e come una cascata mi bagnano il corpo lasciando una sensazione di brivido e freschezza. Nulla è mio e nulla mi appartiene, lo so, ma tutto quel mondo me lo porto dentro.

 

Guardo la baia di fronte a me e i tre golfi che si intravedono di scorcio, a picco sul mare, il Tasman ventoso. Guardo l'arcobaleno che sembra accoglierci, invitandoci a continuare, perchè ci sono nuovi traguardi e nuove mete da raggiungere. Ridiamo perchè in mezzo alla strada una mandria di mucche attraversa la strada d'un botto, lasciando NGARU fermo a guardare, stupefatto.

 

Tutto ciò che sto vivendo qui, accade grazie a quel mondo là. Cosa sarei io senza quegli strati di amore e pelle che mi avvolgono anno dopo anno? Forse sono partita proprio per rispondere a questa domanda. Perchè il bello di viaggiare non è solo andare, vedere, scoprire. Ma è più come guardare indietro e vedere se stessi, da fuori, da lontano. Immagino il vuoto lasciato dalla mia assenza. Sapere che sei lì, anche se non fisicamente, da un senso quasi divino di essere. Dovunque.

 

Foto e testo di

Irma & Matilde

da Sanremo, IM, Italia

 

Graphic Credits @ Chiara Piccinni

 

Viaggio in Messico - «Viva México Cabrones!»

Sono 183 i giorni.

Già al quindicesimo ho cominciato a pensare di andare in Guatemala per poter ritornare in Messico e farne altri 180.

Ma non l’ho mai fatto: un po’ per i soldi, e un po’ perché durante le mie lunghe analisi su chi sono e da dove vengo, ho capito di sentirmi una ragazza benedetta dal miracolo della vita, e di conseguenza, quando comincio a pensare di voler di più, mi capita spesso di vedermi come una che disprezza i meravigliosi doni che le vengono offerti.

 

Ahimé, è che son meridionale, e ho paura che se non apprezzo e non mi accontento, mi puniscono!!

Ragionando con più raziocino, poi, mi rendo conto che la mia cultura e la mia educazione hanno creato un po’ di contraddizioni dentro di me, ma in fin dei conti niente di tanto difficile da non poter essere affrontato.

 

Anche perché poi, alla fine, che posso dire?! Son davvero benedetta: in Messico ci sono stata, anche se solo per 183 giorni, e un po’ di quelle cose meravigliose le ho viste, no?

Il resto ho deciso di vederlo dopo, il prossimo anno, quando forse risolverò le ultime inconciliabili domande che mi tormentano.

 

Quindi «Viva México Cabrones!!!». Questa è stata un po’ la massima di tutto il viaggio. Ad ogni passo che facevi qualcuno che esclamava: «Viva México Cabrones!». Qualcuno alle mie spalle era sempre pronto a ricordarmelo! Andavi in spiaggia li sulle coste del Pacifico, dove i surfisti da tutto il mondo si ritrovano per cavalcare quelle bestie indomabili delle onde, e quando dicevi alla tua nuova amica messicana«Vamos a tomar una caguama», lei non ci metteva due secondi a sorriderti e dirti: «Viva México Cabrones!».

 

Il caso vuole che pure il surfista, sicuramente americano o canadese, appena ti vedeva con una caguama, come il pappagallo di Capitan Uncino dal ridotto dizionario spagnolo, doveva avere il suo momento di gloria dilettandosi nell’inno del momento, e quindi pure lui partiva con un «Viva Méxicooo Cabrones», gonfiando il tutto di "S" come se non ci fosse stato un domani.

 

Niente di troppo sconvolgente da queste parti. La vita era bella, c’èra il mare, c’èra il sole, c’erano le onde, pure la caguama.

La faccenda si è fatta più seria dalle parti del Chiapas. E’ li che ho cominciato ad ascoltare diversamente questo grido.

Eri in mezzo alle cascate: «Viva México Cabrones».

Eri in mezzo alla giungla : «Viva México Cabrones». Anche i gorilla e gli altri animali sembravano gridare la stessa cosa. Una sensazione strana addosso.

 

Tutto ciò però si è amplificato quando sono arrivata a San Cristobal de las Casas. E beh!! «Viva México Cabrones», era un inno presente in ogni strada, stampato su ogni muro sui manifesti dell’EZLN.

Quando cominci a vedere e ascoltare queste parole ad ogni angolo, la tua mente inizia a viaggiare. A ogni «Viva México Cabrones» cominciavo ad immaginare che dentro una di quelle belle casette di San Cristobal de las Casas , L’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, stesse preparando la rivoluzione! Mi sembrava un po’ che i messicani complottassero in gran segreto, e quindi, «Viva México Cabrones» ripetuto ad ogni angolo del paese, era il loro modo di dire «lavori in corso, preparatevi! Rivoluzione alle porte!».

 

Alla fine, mi sono trovata nella bellissima città di Oaxaca. 

Un pomeriggio, appena arrivata, mi sono seduta ad aspettare nel Zócalo un ragazzo del couchsurfing che avrebbe dovuto ospitarmi. Successe che ritardò per circa un’ ora, ma da queste parti è normale:«Ahorita vengo» è come dire «Quando posso vengo, con tranquillità».

 

Quindi, consapevole che lui sarebbe arrivato con i suoi tempi, decisi di rilassarmi sotto il sole e godermi la bellezza della piazza. L’atmosfera era magica! La gente mi guardava come se mi conoscesse,  addirittura mi salutava! Stavo li seduta sul muretto, c’era chi andava e chi veniva, i colori, i sorrisi... insormma, una vera e propria meraviglia! 

 

Proprio in quel momento di massimo splendore, un uomo dai capelli bianchi, si siede accanto a me, dicendomi tutta la verità con il cuore in mano: a quanto mi racconta, io sarei nientedimeno che la figlia di un comandante delle parti di Tabasco! Dice di avermi già incontrato nel 1956 in Israele, che però ero vestita di bianco.

Disse che insieme avevamo affrontato tante battaglie, e che lui ora aveva circa 800 anni. Aggiunse che ero tornata qui in Messico perché avevo una missione da compiere.

 

«Viva México Cabrones». Il segreto non è ancora stato svelato. 

L'unica cosa che mi resta da fare è tornare presto per portare a termine la mia missione!!!

 

 

Foto e testo di

Maria Ciampi

da Benevento, BV, Italia

 

Graphic Credits @ Chiara Piccinni

Viaggio in Germania - Hauptwache

Immaginavo la Germania come un luogo ordinato e preciso, in cui le strade sono pulite e gli autobus in perfetto orario; le persone non avrebbero cercato di saltare la fila alle poste e le macchine parcheggiate in doppia fila avrebbero assunto un non-so-ché di anomalo e maligno. Nulla di più della visione comune, fatta di convenzioni e giudizi stereotipati; questa, l'immagine che mi ero fatta di Francoforte e che si sarebbe rivelata sorprendentemente modesta rispetto a quello che è realmente.

Chi non c'è mai stato deve immaginare una città semplicemente nuova. Una città che, dopo la seconda guerra mondiale, si lega al suo passato architettonico attraverso pochi edifici sparsi, radi, ognuno contornato da palazzi specchiati, grattacieli imponenti tagliati da flussi di persone in giaccia e cravatta che non vogliono far tardi in ufficio, troppo impegnati per fermarsi ad osservare il cielo che si staglia, immenso, sulle loro teste. Questa, una delle cose più belle di Frankfurt am Main: ad oltre cento metri sopra il livello del mare l'orizzonte si abbassa, donando ai cittadini dell'enorme ed ordinata città un cielo travolgente che fa dubitare dell'inesistenza di dio.

 

Il corso di tedesco per stranieri della Volkshochschule è finito e la giornata è decisamente troppo bella per tornare a casa. Decido di fare un giro dalle parti della Katharinenkirche, fermata Hauptwache. Sono travolta dal flusso di gente, impegnata a ripetere a diversi giornalisti dotati di videocamera e microfono che Ich spreche kein Deutsch, sorry, quando sono attratta – come la mia natura femminile richiede – da un banchettino di collane e bracciali. Sono rapita all'istante dall'estraneità di quei due metri quadrati dal resto dell'enorme strada: su un tappeto bianco è seduto scalzo un uomo sulla trentina con lunghi capelli, raccolti e tenuti fermi da piume d'uccello; sembra non accorgersi o, perlomeno, non interessarsi del dinamismo caotico che lo circonda, intento ad intagliare accuratamente i suoi semi di avocado, trasformandoli in fantastici ciondoli. Ha un'aria talmente serena che mi avvicino cauta, preoccupata di rompere la quiete in cui è immerso. Capisce subito che sono straniera.

«Where're you from?»

«Italy»

«Bella Italia! Vieni, siediti con me!».

Ricambio l'ospitalità offrendogli una sigaretta, mentre lui intaglia un ciondolo appositamente per me. Si presenta col nome di Forest, viene dal Kosovo, parla un italiano perfetto. Mi stupisco di sentire che conosce il Salento, vantando il fatto di esserci stato. Bastano pochi minuti per entrare in sintonia, ed il circolo di parole in cui entriamo è caotico, di una caoticità diversa da quella che ci circonda. I discorsi vanno e vengono e, sorprendendomi, rivisitiamo tutti i paesini salentini, entriamo nel mondo del Dio-Natura, e Nietzsche, facciamo un tratto di strada ai limiti del deserto con Hunter Thompson, voliamo. Siamo ovunque tranne che in una strada affollata di Francoforte, mentre una rara, splendida empatia dirige i nostri discorsi verso ogni meta, facendoci assaporare quella irrazionale sensazione di conoscere da sempre una persona cui siedi accanto da appena venti minuti. Forest parla di filosofia con una scioltezza degna di un docente universitario e dalle sue parole traspare una criticità che invidio. Sta parlando dell'esclusiva esistenza di senso all'interno del pensiero e delle parole quando lo sguardo che fino ad allora sembrava ripiegarsi su se stesso, in un delizioso sentimento di indifferenza nei confronti del mondo esterno, si ferma su qualcosa che è alle mie spalle. Non posso fare a meno di voltarmi istintivamente, alla ricerca di quel qualcosa che ha rotto la sua armonia, e con essa la mia.

 

«¡Hola, tio!»

Si avvicina barcollando un ragazzo che avrà non più di vent'anni, occhi scavati, colorito vagamente giallognolo, corporatura incredibilmente minuta. Decifro la smorfia che ha stampata sul volto come un sorriso, dal quale si intravvedono i pochi denti di un colore che mi ricorda quello del Pueblo. Guardo la busta di tabacco aperta sulla mie gambe e la richiudo per poi riporla in borsa. Ignorandomi totalmente, si fa spazio tra Forest e me e si accende una sigaretta. Si china verso Forest e inizia a sussurrargli qualcosa. Cerco di fare la disinvolta, tentando di decifrare il suo spagnolo strascicato.

«Tio, que.. tienes algo para mi, tio?»

Lo sguardo di Forest si incupisce, si incattivisce, e si concentra nuovamente sul suo seme di avocado, spingendo con forza il coltellino fino al cuore e vedo la sua mascella irrigidirsi. Non ottenendo risposta lo spagnolo gli si avvicina ancora un po', facendo assumere al suo corpo una innaturale posizione ricurva a cui seguono parole che non riesco a capire.

Forest non parla, scuote semplicemente la testa continuando ad intagliare, il tappeto bianco si sta riempiendo di trucioli, e alla fine il ragazzo se ne va.

«Ha deciso lui, di rovinarsi», dice con voce fioca. Travolta dall'imbarazzo del non saper cosa dire mi lascio trascinare dal silenzio, e per un paio di minuti sorseggio la Bitburger ormai sgasata, osservando due bambine che giocano, mentre Forest ultima la collanina.

Sorride nuovamente, anche se scorgo nei suoi occhi un fondo di inevitabile malinconia.

«Ecco qui! Tutto tuo!»

Al centro del seme è intagliata una spirale, contornata dai raggi del sole; per l'infinito e per il Salento, mi dice. 

«E le perline di legno laccate di verde sono per l'orgoglio e la speranza».

 

Non l'ho più visto. Ho ancora la collana che fece per me, accuratamente riposta tra quelle cose di valore che mai vorrei perdere. Sei anni dopo quell'incontro penso a Forest, mi chiedo cosa stia facendo, dove stia andando, se sta bene. La prima persona normale che ho incontrato in quello strano mondo ordinato.

 

Foto e testo di

Tiziana Caudullo

da Tricase, LE, Italia

Graphic Credits @ Chiara Piccinni

Viaggio in Colombia - Paradisi Caraibici

Se pensi ai Caraibi che cosa ti viene in mente? Spiagge bianche, palme di cocco, mare azzurro e popolazioni di colore che ballano e si muovono al ritmo di tamburi, no?

Ecco, io mi sono ritrovata in un paradiso del genere, lontana dal mondo.

 

Ci troviamo in Colombia, nell'ultimo paesino al confine con Panama, nel golfo di Urabà. Qui vivono meno di cento persone che ogni giorno sentono cantare galli, infrangersi onde sulle spiagge bianche e fanno risuonare per tutto il paese musica caraibica; e non importa se è giorno o notte, tanto nessuno si lamenta. Il tempo scorre felice, senza aver fretta di fare cose o termini di scadenza di alcun tipo.

 

I bambini corrono allegri per le stradine di Sapzurro, ti abbracciano appena ti vedono e sono liberi di andare da qualsiasi parte perché le mamme non temono che gli succeda qualcosa. L'unico pericolo per queste piccole creature è di rimanere a lungo fuori casa perché troppo curiose di scoprire nuovi modi per divertirsi.

 

Ogni domenica arriva un barcone con rifornimenti di cibo e qualsiasi altra cosa che possa servire a questa popolazione. E la cosa bella è che, già dopo due giorni, le uniche provviste che restano per mangiare sono patate, carote, cipolle, pomodori, riso e pasta. Quindi qui parte la fantasia e inventiva di ognuno per cercare di sperimentare ricette diverse con i soliti ingredienti. E devo dire che vengono fuori piatti veramente interessanti. Se dovesse mancare qualcosa, gambe in spalla e in un'ora e mezzo di cammino per la selva a picco sul mare si arriva a Capurganà, un paese un po' più grande. Qui possiamo addirittura trovare formaggio, carne e una buona varietà di verdura.

 

Camminando per la costa, lungo la spiaggia, si va incontro a una piccola sorpresa: la spazzatura! Si, purtroppo questo non si potrà evitare almeno fino a quando noi , esseri umani, continueremo a gettare nel mare i rifiuti che il mare ci riporta indietro sulla riva. E rovistando tra le cose si trova veramente di tutto: ciabatte, scarpe, pettini, bottiglie...

Fa piuttosto schifo passare in mezzo a tutto ciò, ma ci sono due signori di Medellin (citta' al nord della Colombia) che riciclano tutto: hanno una splendida casa, un giardino fatto di bottiglie, tappi di plastica e tutto ciò che si può trovare in giro.

 

Ora, parlando di spiagge che si possono trovare qui, a 10 minuti di cammino salendo una piccola montagnola, si arriva a Panamà. Dall'alto si può vedere un paesaggio davvero niente male, visto che, nel solito momento, si possono vedere sia la Colombia che la parte panamense. Scendendo dalla parte di Panama si arriva a La Miel, un piccolo paesino dove le spiagge isolate ci permettono di passare delle splendide giornate all'insegna del più completo relax.

E per finire la punta più estrema della Colombia e' chiamata Cabo Tiburron e qui si possono ammirare vari tipi di corallo e pesci coloratissimi che nuotano tranquillamente tra i nostri piedi.

 

Gli elementi naturali non mancano e ancora si può vedere come aria, acqua, terra e fuoco possano convivere insieme all'uomo. Che bella la semplicità!

 

                                                                          Testo di Greta Bria
                                                                  da Firenze, FI, Italia
                                                                                   Foto dal Web

Graphic Credits @  Mattia Martini

Viaggio a Tenerife - Riflessioni sul primo mese

Stanotte è un mese che sono a Tenerife e mi sembra il caso di iniziare a tirare alcune conclusioni.

Innanzitutto, perché sono partito? Potevo avere tutti i motivi del mondo all'inizio - imparare una lingua, conoscere un pezzo di mondo in più, lavorare ecc. ecc. - , ma la realtà è che credo che il senso vero lo capirò solo a posteriori.

 

Qua sembra di vivere in una barzelletta, una storia: "c'era un italiano, un francese, un inglese e un tedesco..". Qua è sempre così, nessuno è di casa ma tutti importano la loro casa qui e si mescolano, scambiando culture, oppure semplicemente si ghettizzano, costruendo piccole propaggini della loro nazione.

Anche il clima è da mondo delle fiabe, e puoi spostarti in pochissimo da un torrido deserto a una cima innevata, da lande ventose a foresta umida.

Ho imparato che qua le promesse valgono meno della mia laurea. D'altra parte vivo in un arcipelago di due milioni d'abitanti dove, solo questo mese, c'è stato un milione di visitatori. Tutti sanno di poter sparire facilmente nel nulla, di poter essere re per una notte, e domani neanche un ricordo.

Un'altra cosa che ho imparato qua è di non chiedere mai a nessuno perché ha scelto di abbandonare il suo paese e di venire a Tenerife, nella quasi totalità dei casi è meglio non saperlo.

 

Il senso di precarietà e di rinnovamento è costante, ovunque enormi nuove zone urbanizzate e ruderi inghiottiti dalla roccia, l'isola stessa si distrugge davanti ai tuoi occhi, i sassi velocemente si staccano dalla montagna fino a diventar sabbia, e l'arcipelago subito butta nuova lava a rinnovare ciò che va distrutto.

 

A sentire la gente che vive qua da anni, questa è stata, fino a pochissimi anni fa, una vera frontiera, dove tutto era possibile e il lavoro cresceva sotto i sassi senza mai esaurire la sua domanda.
Mi viene spesso in mente quel pezzo di Paura e Delirio a Las Vegas, quando parlando del mondo degli Hippies, Raul Duke scriveva: "meno di cinque anni dopo, potevi andare su una ripida collina di Las Vegas e, se guardavi ad ovest, e con il tipo giusto di occhi, potevi quasi vedere il segno dell'acqua alta, quel punto, dove l'onda infine si è infranta ed è tornata indietro".

"Come stai?" è la domanda che più spesso, giustamente, mi viene posta dall'Italia. Vorrei provare a dare una risposta un po' più sostanziosa di "alla grande": c'è caldo, vedo buona parte delle culture del mondo in un piccolo spazio, ogni pianta e clima possibile, pesco molto, nuoto molto e me la cavo ogni giorno tentando di farmi bastare i soldi e di guadagnarne qualcuno. Mi sento libero, anche se mi mancano i miei amici e la mia famiglia, ma non mi manca altro dell'Italia. Mi sento straniero, è vero, ma alla fine mi sento straniero un po' ovunque, ed è una sensazione tutto sommato positiva.
Direi che più che "star bene" sono "accecato di bellezza" e devo ancora abituarmi al tutto per capire come sto.

 

                                                                       Testo e foto di
Giacomo Luperini
                                                                  da Milano, MI, Italia

Graphic credits @ Chiara Piccinni
                                                                                  

Viaggio a Cabo Verde - Tra le dune di Santa Maria

Ho dormito abbastanza bene, nel mio spaziosissimo trilocale con quattro posti letto in cui alloggio da solo. Non ricordo a che ora mi sono svegliato, ma ho fatto una doccia e sono uscito velocemente: volevo tornare a vedere le strane sculture che avevo intravisto a sud la scorsa notte, ma con la luce del sole.

 

Santa Maria è una cittadina sviluppata in lunghezza, con una caratteristica tipica di quasi tutte le località tropicali di paese emergente: la bipolarità. A sontuosi residence e villette colorate si affiancano, specialmente nell'entroterra, palazzetti ben più modesti e trasandati.

 

Le strade principali sono due, asfaltate e piene di localini più o meno turistici. Il resto dei viali si snodano in maniera regolare, in una versione esotica di pianta romana. Nei casi fortunati, rivestiti a sanpietrini, nelle zone periferiche, in semplice sterrato. Mi sono incamminato, noncurante degli inglesi e della loro puzza dolciastra di sudore e crema solare, raggiungendo velocemente la spiaggia e constatando quanto fosse lontano quel posto: si vedeva all'orizzonte, parzialmente coperto dalle dune.

 

Ad una banale passeggiata sulla battigia ho preferito un'alternativa camminata in mezzo alle dune e agli arbusti. Ho scelto bene. Il mare si vedeva solo in lontananza, mano a mano che mi allontanavo dalla costiera turistica i rumori della natura prendevano il posto delle hit pompate dagli impianti dei villaggi e delle urla di bambini disperati per castelli di sabbia appena calpestati.

 

Il vento pettinava il suolo, creando nelle piccole valli tra un sedimento di sabbia e l'altro quasi dei sentieri. Delle strane piante a metà tra il rosmarino e il cactus spuntavano di tanto in tanto da sottoterra e in lontananza una torre catturava ogni frammento di luce e brillava come se fosse un led gigante. Non avevo nemmeno considerato il fatto che non riuscissi a vedere il mare, e questa fu la mia fortuna.

 

Mentre iniziavo ad avvertire i primi dolori alle gambe scalai una piccola duna e, arrivato in cima, la mia marcia si interruppe automaticamente e mi venne da sorridere, in quel modo così spontaneo, inarrestabile e immotivato da pensare che forse ero felice per davvero davanti a quello che era appena comparso sotto i miei occhi: prendete il miglior blu che la vostra fantasia possa concepire e gonfiatelo di 20 volte della vostra aspettativa di ottimismo.

 

Neanche adesso ci siete vicini. La particolarità di questo posto, poi, è che conoscere le persone è relativamente semplice: ci sono cricche e sotto cricche, simpatie più o meno celate, fragilissimi equilibri sociali , love stories, fregature, accordi e rancori che ricordano parimenti le meccaniche umane dei paesini della mia terra (ponente ligure) e gli intrecci di una telenovela brasiliana di ultima categoria. È un lato non trasculabile che personalmente credo faccia perdere molti punti a questo posto.

 

Mi sono fatto anche un giro nella zona meno commerciale, con le abitazioni degli indigeni, ed ho respirato un'aria completamente diversa dal solito: ero tranquillo, rilassato, il sole era cocente e le persone ne stavano saggiamente alla larga coperte all'ombra degli edifici, seduti sui muretti, semplicemente lì, a chiacchierare e prendersi il fresco del vento, che per fortuna non manca mai.

 

 

                                                                       Testo e foto di
Giacomo Poretti
                                                                  da Hausen, Germania

Graphic credits @ Chiara Piccinni
                                                                                  

Viaggio a Londra - Liberi tutti!

Ho sentito parlare di voi per caso e, vedendo nella casualità delle cose la definizione di Bellezza per eccellenza, ho deciso di scrivervi affidando al caso anche il fatto che possiate mai leggermi.

 

Mi chiamo Maya, ho vent’anni, sono di Roma, e se potessi rinascere, rinascerei Jim Morrison….. Sì, questa sfilza infinita di coordinate esistenziali annoia anche me (tranne lo svarione della reincarnazione in Morrison, s’intende.)

 

Riproviamo…

Sono (anche se a volte fatico ad essere, essere pienamente intendo) esattamente due anni, che viaggio il mondo munita di un budget standard di grandi speranze ed una spropositata sete di vita, che sono, inevitabilmente e per definizione, inversamente proporzionali alla quantità di soldi che ho a disposizione.

 

Ho visto luoghi che mi han toccata dentro, in meandri bui di me stessa che anche io ignoravo di possedere, al punto tale da ritrovarmi in lacrime su di uno scoglio di fronte l’oceano e non saperne il perchè. Avrei mille cose che potrei raccontarvi, mille posti da descrivervi ed altri mille che col tempo ho scordato o dei quali non ho mai saputo il nome.

Non lo farò.

 

Per come la vedo io, ad abbattere quelle fottute (licenza poetica, chiedo venia) mura d’acciaio mentale spesse novanta-psico-centimetri dove tutti noi siamo recintati dalla nascita, smettendo così d’esser spettatori di esperienze altrui, non potete essere altro che voi.

Quindi munitevi di spranghe e perdetevi. Adesso, domani e per il resto del vostro breve viaggio sulla superficie terrestre.

Quello che vi racconterò adesso quindi, prescinde dalla bellezza d’un paesaggio, dall’odore del mare, dalle tonalità di colori pastello d’un tramonto.

 

Quello che vi racconterò adesso è il come ho iniziato ad essere protagonista della mia personale tragicommedia che è la vita, con la speranza che qualcuno si svegli una mattina, per caso, avendo letto tutto questo, per caso, avendo riflettuto, per caso che è ora, come diceva una certa persona, di seguire i propri occhi sognare, fuggire dall’orbita e non voler ritornare.

Sarò breve ed indolore:

 

Londra 2012. Gennaio. Età anagrafica: 18 anni.

 

Un freddo pari a mille lame che mi trafiggevano il petto che ancora adesso riesco a sentire. La meta successiva sarebbe stata la Germania, e con gli ultimi soldi rimasti avevo prenotato volo aereo e ostello per qualche giorno. Il destino volle(del resto, se neanche gli Dei potevano opporsi ad esso, cosa avrei potuto io?) che persi l’aereo e così tutte le speranze di un tetto sopra la testa di lì ai prossimi due mesi, data in cui avevo trovato un altro volo prenotato dopo aver venduto il cellulare.

 

Così iniziavano i due mesi più belli e strazianti della mia intera esistenza. “Si è liberi davvero, quando non si ha nulla da perdere”, non lo sai per certo fino a quando non lascia un segno indelebile sulla tua pelle.

Ho vagato senza meta col mio zaino dove mi sedevo per mangiare qualcosa che i passanti distratti mi offrivano, e dove poggiavo la testa per dormire nelle stazioni dei treni aperte 24ore.

Mi sono seduta con “gli ultimi” scoprendo che non erano tali, dividendo con me la loro elemosina e qualche sigaretta. Mi porto dentro i loro volti logorati dai più disparati dolori, qualche distorta teoria esistenziale sul significato della vita e tutti i loro racconti tanto amari quanto romanzati, sulle loro vite andate a finir male.

Mi porto dentro la bellezza di veder sorgere il sole al mattino quando la notte prima credevo fosse l’ultima.

Mi porto dentro tutti i volti delle persone che mi hanno accolto nelle loro case per uno o più giorni, non come sconosciuta ma come una sorella con cui bere del vino e sentir buona musica.

Mi porto dentro tutti i volti delle persone che mi avrebbero potuto far del male.

Mi porto dentro i volti dei conducenti che mi lasciavano dormire fino al capolinea e di chi mi regalava anche solo un sorriso.

Mi porto dentro i volti degli indifferenti, troppo occupati ad aggiungere valori effimeri alle loro esistenze per fermarsi e tendere la mano a qualcuno.

La me stessa di oggi a distanza di tempo, non ha mai smesso di viaggiare e porta sulla pelle, nel cuore, e come peso sugli occhi il prezzo della Libertà ha, della quale il gioco,credetemi.. vale sempre la candela.

 

 

                                                                       Testo di
Maya Libre
                                                                  da Roma, Italia
Foto dal web


Graphic credits @ Simone Piccinni
                                                                                  

Su un'altura a forma di lira dorme la millenaria città di Castro, circondata da rupi scoscese che dominano profonde valli boscose. Una gemma dimenticata che conserva tracce antichissime di storia. La trovi nascosta dentro una foresta, dove il tempo si è fermato e la natura ha coperto testimonianze dal Neolitico, necropoli, ponti, architetture ed opere della città prima etrusca, poi romana, le successive progettazioni medievali e rinascimentali dei tempi in cui Castro fu patria e capitale dell'omonimo ducato, fino alla sua caduta per mano del Papa.

 

Si arriva al confine fra Lazio e Toscana percorrendo una stretta strada che costeggia la Selva del Lamone, dove la natura incontaminata crea un'atmosfera da fiaba e regala degli scorci da mozzare il fiato. Dai monti, con una serie di tornanti, si scende a valle ed il panorama muta, la foresta lascia spazio a vigneti, pascoli e antichi casali in pietra circondati da ulivi. La strada termina in un piazzale adibito a parcheggio, circondato da evidenze etrusche ed antistante la chiesa del S. Crocifisso di Castro, nella quale è conservata una sacra reliquia risalente al periodo della distruzione, da secoli meta di annuali pellegrinaggi che i devoti percorrono nottetempo a piedi dai vicini centri dell'antico ducato.

 

La via di accesso a Castro è la magnifica Via Cava etrusca, un' imponente opera ingegneristica che, tagliando in due la roccia della collina, consentiva il transito in uno stretto passaggio in mezzo ad alte e lisce pareti svolgendo funzioni al contempo difensive e di raccolta delle acque. Percorrendo la tagliata etrusca si raggiunge il fondo della gola del fiume Olpeta, vera e propria muraglia naturale che protegge l'altura della città su tre lati, e l'unico ponte, etrusco a doppia campata e in parte conservato, che supera il fiume e conduce alla Porta di Santa Maria, ingresso cittadino fortificato e sorvegliato. Da qui, tramite il tradimento delle guardie di presidio, le truppe pontificie fecero breccia nella città ed iniziarono il saccheggio e la devastazione, seguiti dalla deportazione degli abitanti e dalla vendita dei loro beni. Era il 1649.

 

I successivi secoli di rovina hanno permesso alla natura di coprire quasi del tutto i secoli di storia che giacciono nascosti in questi luoghi. La vicinanza di Roma ha contribuito a lasciare semi-dimenticato questo gioiello, che ben pochi conoscono. Salendo ripide scale, su cui si affacciano nicchie risalenti al neolitico ed ambienti ipogei millenari appena visibili tra la fitta vegetazione, si raggiunge la sommità pianeggiante della collina, ovvero il cuore della Castrum medievale e rinascimentale. Compaiono nel sottobosco basamenti di colonne e resti di grandi edifici celati da tronchi di cerri e lecci, e si apre una grande radura bordata da rovine di magnifici palazzi, che un pannello informativo ci informa essere Piazza Maggiore, opera di Antonio da Sangallo, risultato della riprogettazione della città da parte dei Farnese nel XVI secolo, il periodo di massimo splendore del Ducato di Castro, quando venne eletto al soglio pontificio un papa castrense, Paolo III. Il Sangallo progettò anche l'Arco di Trionfo che costituiva l'entrata alla città da Porta Lamberta e la chiesa di San Francesco, su un costone che domina la valle sottostante, i cui resti dovrebbero essere in fase di restauro, ma che nella triste realtà sono praticamente abbandonati a loro stessi. Castro fu sede vescovile e la piazza ospitava anche un duomo in stile romantico. E' interamente lastricata, in un abbraccio con la natura che avrebbe fatto la gioia di un intellettuale dell'ottocento, e da qui, li scorgi come brecce nel muro di piante, sentieri mattonati nel bosco che costituiscono la rete viaria antica. Percorrerli significa intraprendere un tour mistico e selvaggio, porta a grotte e gallerie scavate nella pietra, a picco sulla gola dell'Olpeta che rumoreggia con le sue cascate, nei luoghi che ospitarono l'uomo della cultura di Rinaldone millenni fa, e che diventarono case e luoghi di preghiera per gli eremiti cristiani durante il medioevo.

 

Gli antichi abitanti di Castro ne cantavano la bellezza artistica e naturale, la grandiosità dei palazzi e delle sue mura, che sorgevano direttamente sugli speroni rocciosi e che potevano essere superate solo volando. Respirando l'aria pura di questi luoghi, leggendo una grande storia ovunque si posi lo sguardo, viene da domandarsi quanto valgano il rispetto, la tutela, lo studio e la divulgazione del nostro patrimonio. Questo sito potrebbe godere di un migliore stato di salute, meriterebbe studi approfonditi e restauri competenti. E' la nostra storia. In fondo si tratta di rispetto e di amore verso noi stessi, il valore non è calcolabile.

 

 

                                                                       Testo e foto di
Glauco Poscia
                                                                  da Latera, VT, Italia


Graphic credits @ Simone Piccinni
                                                                                  

Viaggio a Castro (VT) - Una gemma nascosta
Viaggio a Tenerife - Tamburi nel deserto

Girava la voce, fin dal mio arrivo a Tenerife, che alla prima luna piena ci sarebbe stata una festa nel deserto vicino a El Medano. Ovviamente l'idea mi piaceva molto, ma ho scoperto presto che cercare una festa in un deserto che non conosci, con solo la luna piena a farti da faro, non è così facile.

Innanzitutto, il deserto di notte è molto più freddo di quanto si possa immaginare, in particolar modo se si trova in una zona ventosa. In secondo luogo perché ogni indicazione raccolta differisce totalmente dalla precedente.

Vagando nel deserto la roccia frana e tra un cespuglio di cactus e l'altro partono in corsa le sagome nere delle lepri, che nel silenzio più assoluto, fanno accapponare la pelle. Poi, a un certo punto: la luce! La seguo per una ventina di minuti, scoprendo solo dopo che non proviene dalla festa, ma per mia fortuna era proprio nella direzione del barranco (canyoon) nel quale si svolge.


Dall'alto del canyoon mi appaiono fuochi, giocolieri, grida festose e lampade di vud. La parete rocciosa, scavata dall'acqua e dal vento, sigilla ermeticamente le luci e i suoni, mantenendo il calore e dando una strana sensazione di raddoppiamento della massa causata dall'eco.
Un cospicuo gruppo di percussionisti, cantanti e un sax, suonano una magnifica goa strumentale, mentre un gruppo di ballerine danzano balli africani intorno al fuoco, lanciando urla beduine. Sulle dune, giocolieri con bolas infuocate e contorsioniste che si calano da funi di seta.

Più in là, il sound vero e proprio, circondato da tende e un centinaio di persone (prevalentemente italiani, brasiliani e spagnoli) che ballano sotto alla luna piena.
Dopo 7 o 8 birre ho imparato perfettamente lo spagnolo e sono finalmente riuscito a comunicare e a godermi la festa da "interno" e non da "antropologo".

Per tutta la notte la meraviglia prosegue, anche se gli hippie, usciti per l'occasione dalle loro grotte, e la "gente delle case" tendono a non mescolarsi mai.


All'alba il sole illumina uno spettacolo incredibile: l'enorme canyon con gli "irriducibili" ancora intenti a ballare, il lago verde con 5 o 6 coraggiosi che si fanno il bagno mattutino e un deserto cosparso di sagome stanche e felici, che vagano senza una meta.

 

 

                                                                       Testo e foto di
Giacomo Luperini
                                                                  da Milano, MI, Italia


Graphic credits @ Chiara Piccinni
                                                                                  

Viaggio a Punta Umbrìa - Nulla accade per caso

Siamo nella stanza 106 dell'Albergue Juvenil in avenida del Oceano, numero tredici, a Punta Umbrìa. Il sorriso è inevitabile quando una spiaggia deserta, colonizzata solo da milioni di conchiglie, splende in preda a un sole inaspettato, considerato che è il mese d'aprile. Con vista sul mare, non in alta stagione, una stanza doppia costa circa trentacinque euro a notte, colazione inclusa.

 

La nostra destinazione originaria, Gibilterra, era saltata a causa di un disguido con l'agenzia di noleggio auto; la prenotazione online non specificava la necessità di una tarjeta de credito con un'ampia copertura e l'addetta al banco ci aveva liquidado nel giro di pochi minuti, lasciando che disillusione e frustrazione prendessero il sopravvento. Fortunatamente esiste l'improvvisazione e, basandoci esclusivamente sulle scarse disponibilità economiche e spinti dalla voglia di partire, abbiamo deciso di prendere un treno casuale, destinazione Huelva. Da lì, un autobus ci aveva portato in questa deliziosa località di mare, terribilmente turistica nei mesi estivi, che si trova ad una ventina di chilometri a sud-ovest della provincia.

Mi è parso uno scherzo del destino che quel viaggio fosse stato organizzato per il mio compleanno e che ci siamo ritrovati in un paese la cui piazza principale si chiama Plaza 26 de abril de 1963. Nulla accade per caso, come dice Carlo Taglia.

 

Procurarci un asciugamano per la spiaggia è stata la prima cosa che ci siamo preoccupati di fare. La protezione solare, invece, avrebbe dimostrato la sua indispensabilità più tardi, quando siamo andati alla ricerca di una crema per le scottature. Diverse concentrazioni di melanina creavano delle striature in un certo senso artistiche, che seguivano le linee del corpo a seconda della posizione presa sul bagnoasciuga, nel sonno. Quella di non dormire sotto al sole andaluso senza protezione è una lezione che credevo di aver appreso.

 

Il relax è l'unica regola del viaggio. A lunghe passeggiate sulla spiaggia seguono altre passeggiate nel bosco, e poi in paese. Una caratteristica particolarmente piacevole di Punta Umbrìa è la presenza lungo la maggior parte delle strade di targhe in ceramica che a prima vista potrebbero sembrare indicazioni stradali ma che si rivelano essere poesie che l'Ayuntamiento ha deciso di regalare a chiunque avesse voglia di leggerle. Ni un dìa sin poesia, il nome dell'iniziativa.

 

Al termine della giornata la fame si fa sentire ed ecco che il mio ragazzo permette il più grande errore che si possa mai fare: farmi scegliere il ristorante in cui cenare. Presa dall'euforia e attratta esclusivamente dall'insegna, scelgo un ristorantino in centro che si rivela servire solo piatti della Nouvelle Cuisine. Ci accomodiamo ad un tavolino angolare, in una sala praticamente vuota, sovrastato da un fiore rosso che si erge fiero. Ricordo ancora il sapore di quel pesce non cotto adornato da frutta e salse dolciastre come tra i peggiori mai provati. Fortunamente un bagliore di saggezza mi aveva fatta insistere affinché fosse lui a scegliere il vino, che si svela essere l'unica cosa buona della cena.

 

Usciamo dal ristorante con ancora il retrogusto dolciastro, terribilmente difficile da mandare giù, e lo stomaco insoddisfatto richiede attenzioni; andiamo così alla ricerca di una buona compensazione. Iniziamo a vagare senza una meta ben precisa, quando ecco che ci compare di fronte quella che si rivela essere la salvezza delle nostre papille gustative: il chioschino della piazza principale che avevo snobbato appena un'ora prima è ancora aperto e straborda gente. Adorate tapas! Pesce fresco a quantità industriali, bocconcini di pollo ricoperti di una salsina al Roquefort, frutta e verdure freschissime dal sapore eclatante compensano la grande delusione del ristorante francese. Soddisfatti, non possiamo che far seguire un buon Porto in un pub sulla spiaggia.

 

 

Foto e testo di

Tiziana Caudullo

da Tricase, LE, Italia

Graphic Credits @ Simone Piccinni

Non so se come me avete mai creduto al paese dei balocchi, tipo quello di Pinocchio. Beh, è capitato di viverci per ben 2 anni, e vi assicuro che non ha nulla da invidiare a quello della favola.
Ricordo ancora quando mi inviarono il contratto di lavoro per Dubai: non dormii diverse notti per l'agitazione. Ricordo che ogni tanto mi alzavo dal letto e andavo al pc per vedere le immagini di quella città.


Finalmente arrivò il giorno della partenza: Fiumicino-Doha-Dubai. Era novembre, ed ero partito dall'Italia con felpa e giubbotto. Arrivato a Dubai mi sono dovuto svestire subito: c'erano almeno 30 gradi. A novembre!
Voglio provare a raccontarvi un po' di questa città, che ho cercato di scoprire al massimo, avendo tanto tempo a disposizione. In primo luogo vorrei sfatare un mito: non è vero che costa tanto. Ci si può divertire e mangiare anche con poco. Gli alberghi, magari un po' più lontani dal centro, hanno prezzi simili all'Italia. Anche per quanto riguarda i mezzi pubblici sono super economici ed efficienti, per non parlare dei taxi, che trovi praticamente ad ogni angolo e che costano davvero una miseria.


Questa città è fantastica, una verae propria metropoli nel bel mezzo del deserto. Già dall'aeroporto al mio appartamento mi ero letteralmente innamorato: tutti i grattacieli di forme e luci diverse, un autostrada a 7 corsie (la Scheikh Zayed road) e poi verde, fiori e parchi ovunque.
Ricordo ancora il primo posto che visitai, il Dubai Mall, ossia il centro commerciale piu grande del mondo, tanto che ci ho messo 3 giorni per girarlo tutto: immenso, con 1200 negozi, un acquario enorme, cascate, pista di pattinaggio sul ghiaccio.

 

Arrivata la sera, uscendo dal Dubai Mall, ci si trova davanti ad uno degli spettacoli piu belli al mondo: davanti al Burj Khalifa, il grattacielo piu alto del mondo ci sono delle fontane danzanti con giochi di luci e musica, semplicemente fantastiche. Ricordo che stetti per ore a guardare quella meraviglia. Ogni spettacolo dura 5 minuti e si alternano ogni 30 minuti per tutta la sera. Ebbi dei brividi e la pelle d'oca ascoltando la canzone di Boccelli e Sarah Brightman, “Time to say goodbye”.


Un altro ricordo che riafffiora mentre scrivo, è di quando, in pieno dicembre, insieme a degli amici andammo al mare, con dei cappellini da Babbo Natale per deridere i nostri amici in Italia, e nel pomerigio della stessa giornata, a 10 minuti col taxi, andammo all'Emirates Mall, un altro centro commerciale enorme di Dubai, dove c'è una vera e propria pista da sci con neve, pinguini, seggiovie e addirittura uno chalet in legno dove poter sorseggiare una buona cioccolata calda. Ancora con i costumi addosso abbiamo affittato una tuta e uno snowboard e siamo passati dalla spiaggia e i suoi 25 gradi alla neve e a -4 gradi. Incredibile.
Poi ci sono i 2 acquaparck della citta: uno è il Wild Wadi Waterpark, si trova di fronte al Burj Al Arab, l'unico albergo al mondo ad avere sette stelle e a essere a forma di vela; l'altro, invece, è l'Atlantis Waterpark,che ha tante attrazioni tra le quali uno scivolo kamikaze che passa in un tunnel circondato da squali. Si trova su di un'isola artificiale - Palm Jumeirah -, progettata a forma di palma. Ancora mi chiedo come ci siano riusciti.


Per quanto riguarda le temperature vi consiglio di visitare Dubai da ottobre a maggio, periodo in cui si sta davvero bene con una temperatura che varia tra 25 -30 gradi. Fuori da questo periodo vi sconsiglio vivamente questa città, perché le temperature possono raggiungere i 45-50 gradi con un afa che vi impedisce di respirare normalmente.

Inoltre d'estate c'è il ramadam che dura un mese, e gli abitanti di Dubai sono molto rigidi sulle regole religiose in quel periodo: infatti non si puo fumare, bere o mangiare durante il giorno in luoghi pubblici.
Per quanto riguarda le regole di comportamento vi do alcuni consigli: per fortuna Dubai è tra le citta degli Emirati quella un po' più elastica su certe cose, però bisogna sempre stare molto attenti e mostrare rispetto verso usi e costumi differenti dai nostri.

Non vedrete molti poliziotti per strada perchè sono tutti in borghese, e al minimo sgarro sono pronti a prendervi e rimandarvi da dove siete venuti. L' alcool è illegale, ovvero non lo trovate nei supermarcati, ma solo nei locali e ristoranti con la licenza, e ve lo fanno pagare davvero molto.

Non si posso scambiare effusioni in luogo pubblico, tra l'altro, e bisogna cercre di avere un comportamento sempre nei limiti.

Tutto questo porta Dubai ad essere una delle citta piu sicure al mondo.

Qui siete considerati maggiorenni se avete 21 anni, quindi vedrete tutti i buttafuori che vi chiederanno i documenti per entrare nei locali, a meno che non siate delle belle fighe, allora chiudono un occhio, o forse li aprono meglio.
 

Vi consiglio anche il bagno di mezzanotte, in quanto le acque del golfo degli Emirati sono tra le più calde al mondo ed è un vero piacere crogiolarsi tra le onde.
Inoltre non si può non visitare Deira, la parte vecchia di Dubai. divisa da un fiume che è possibile attraversare con delle piccole imbarcazioni chiamate Abra, al prezzo modico di 30 centesimi di euro. Sulle rive di questo fiume troverete i mercati dell'oro, delle spezie, della carne e della seta. Davvero molto belli e caratteristici, si trova merce a prezzi molto più bassi rispetto al centro. Naturalmente, come in ogni paese arabo, la parola d'ordine è una sola: contrattare. Magari anche per 20 minuti facendo anche la classica finta del "vado da quello dopo": state sicuri che vincerete la battaglia.

Per una bella passeggiata di sera, magari per andare a cenare o semplicemnte gustarsi un gelato, vi consiglio di andare a Dubai Marina. sul lungo mare.
Ah, dimenticavo il safari nel deserto!! Come perderselo?

Si parte nei gipponi alle 3 del pomerigio e dopo un'adrenalinica corsa tra le dune del deserto si arriva in un campo di beduini con i tipici tavoli e cuscini arabi, cammelli, grigliata di carne e pesce, spettacoli con danzatrici del ventre.

Non si puo non fumare la shisha, speziata e davvero caratteristica, mentre per le donne c'è anche una tatuatrice delle mani, come prevede l'usanza locale.
Ma non è finita qui, ci sono un sacco di cose da fare a Dubai: visitare il Ferrari World, andare a giocare a golf in un campo stupendo con laghi artificiali, alberi e verde ovunque, salire sul Burj Khalifa e ammirare il panorama da 840 metri di altezza...
Questa citta è fntastica con un'architettura futuristica che rasenta la fantascienza, divertimento sfrenato, lusso esagerato, chilomentri di spiagge bianche abbaglianti ottimamente attrezzate. Dubai non è una citta qualsiasi, e lontana da ogni altra realtà. Un'oasi circondata dal deserto, uno skyline in continua evoluzione dove i grattacieli nascono come funghi e fanno a gara a superarsi e oltrapassare ogni limite. Quello che nel mondo non esiste, lo si trova solo a Dubai.
 

 

Foto e testo di

Giovanni Cortese

dalla provincia di Napoli, Italia

Graphic Credits @ Simone Piccinni

Viaggio a Dubai - Vele nel deserto
Viaggio in Francia - Scampagnata Provenzale

Decidiamo di partire con la nostra auto da Milano, in direzione Ventimiglia, con destinazione Nizza.

Non troviamo traffico, e a metà mattinata varchiamo il confine francese. Arriviamo a Nizza e subito localizziamo il nostro hotel: una normale pensioncina in prossimità del centro. Iniziamo quindi la visita della città. A Nizza non ci sono edifici storici e musei di particolare rilievo; la città si visita soprattutto esternamente. E' piacevole passeggiare nella città vecchia, che preferiamo di gran lunga alla parte moderna e turistica dei grandi alberghi. Interessante il mercato dei fiori, che di sera si trasforma: via i banchi per lasciare il posto ai tavolini dei ristoranti di pesce all'aperto, dove ceniamo. Dopocena romantico, passeggiando sul lungomare e ritorno in hotel.

 

Per il secondo giorno la guida consiglia una tappa ad Aix-en-Provance. Tuttavia la città si rivela poco interessante e quindi, dopo un breve sopralluogo, proseguiamo per Arles, città di confine tra Provenza e Camargue, che si presenta come una città antica, monumentale e ricca di folklore.

Il nostro hotel è incantevole: si presenta come un edificio antico, con scale monumentali, decori, mobili in stile e canti gregoriani in sottofondo. Un ambiente suggestivo con estrema cura dei particolari. E pensare che è solo un 2 stelle!

 

Visitiamo la parte antica della città apprezzando in particolare un antico chiostro, nella piazza principale. Ad Arles tutto ricorda Van Gogh, che qui ha vissuto per un periodo. Compriamo dei souvenirs nei negozietti turistici vicino all'arena. La sera Arles si spopola; i numerosi turisti sembrano scomparsi, forse solo in transito.

Ceniamoquindi in un ristorantino all'aperto, godendoci della gustosa carne di toro.

 

Dopo un'abbondante colazione nel nostro hotel di Arles, preleviamo l'auto dal parcheggio custodito dove ci hanno consigliato di lasciare l'auto per ragioni di sicurezza e partiamo per Aigues Mortes, nella regione della Camargue. E' una cittadina fortificata circondata da acque.

All'interno allegri vicoli; all'esterno, nei canali, innumerevoli imbarcazioni per la visita dei corsi d'acqua. Anche noi ci facciamo tentare da un breve tour dei canali. Riusciamo anche a vedere i cavalli selvaggi, tipici della regione. Pranziamo con dei panini, acquistati negli alimentari all'interno delle mura e ci rimettiamo in marcia.

 

Arriviamo ad Avignone nel pomeriggio, un po' stremati per il ritmo della giornata.

Così decidiamo di rimandare la visita della città al giorno successivo limitandoci a passeggiare per le vie del centro dove, fortunatamente, si trova il nostro albergo.

Anche questo hotel risulta di nostro gradimento. Seppur 2 stelle, gli alberghi di qui risultano ospitali e quasi lussuosi, ma con prezzi convenienti.

La mattina dopo, ci alziamo di buon ora. E' il nostro ultimo giorno i vacanza, e vogliamo visitare l'imponente Palais des Papes (antica residenza del Papa nel periodo del trasferimento della sede papale ad Avignone). Il palazzo, tanto affascinante esternamente, si presenta all'interno piuttosto deludente in quanto spoglio e povero di decori.

E' d'obbligo la visita al famoso Pont d'Avignon che ci si offre per delle belle fotografie.

 

E poi via, di nuovo verso Milano, con ancora negli occhi gli splendidi panorami provenzali.

 

 

 

Testo di

Luisa Sbrizzi

da Milano, MI, Italia

Foto dal web


Graphic Credits @ Simone Piccinni

Viaggio a Cuba - Baracoa

Confinando a nord con l’Atlantico ed in tutte le altre direzioni con fiumi, montagne e foreste, Baracoa è rimasta in gran parte isolata, il ché rappresenta una delle sue attrattive principali. La città, grazie alla grande diversità delle sue bellezze, come il caratteristico altopiano di El Yunque, e ad una vivace attività culturale, come il festival di strada che ogni anno ad aprile commemora l’inizio della guerra di Cuba per l’indipendenza, ed in cui gli appassionati potranno apprezzare il “changüí”, la caratteristica musica indigena che risuona per le strade dei vicini villaggi di Virginia e Yateras.

 

Percorrere la "Farola" è un'emozione inesprimibile. La strada si snoda tra paesaggi mozzafiato in una serie di curve e tornanti che, partendo dal paesino di Cajobabo e attraverso la Sierra del Purial, giunge fino a Baracoa. Quest'incantevole strada è una delle grandi conquiste della rivoluzione: prima degli anni '60 non esisteva, o meglio era un sentiero percorribile solo a piedi o a dorso di mulo. Fu voluta da Fidel per collegare, all'interno della provincia di Guantanamo, una zona fino ad allora quasi abbandonata, quella di Baracoa appunto.
 

E' questa una città inspiegabilmente poco nota e dimenticata dal turismo, pur avendo tutte le capacità e possibilità di essere un grande polo di attrazione per i suoi numerosi primati:è qui che Cristoforo Colombo approdò nel suo primo viaggio sull'isola, alla fine del 1492, descrivendola come "la terra più bella che occhio umano abbia mai visto". Inoltre è la più antica città cubana, costruita nel 1410 da Diego Velasquez per farne la capitale. Ancora oggi conserva numerose abitazioni dell'epoca, costruite in legno, che sfidano il tempo e che conservano il fascino sottile e decadente delle cose belle e dimenticate.


Arrivare a Baracoa può costituire quasi una delusione: la città appare dimessa, quasi voglia negarsi ad occhi estranei. Occorre scoprirla poco a poco, con pazienza ed amore, ed allora si offre agli occhi attenti in angoli ricchi di fascino e di storia. Nella parrocchia di Nuestra Senora de la Asuncion si conserva la "Cruz de la Parra", che si dice sia l'ultima rimasta delle molte che Colombo portò sull'isola. Per i golosi, obbligatoria una sosta alla "Casa del chocolate", da poco restaurata, dove si può gustare cioccolato in tutte le possibili varianti: caldo, gelato, nelle torte, in crema, tutto preparato con il cacao di produzione locale. Seduti su grandi tavoli comuni, è un'ottima occasione per fare amicizia e scambiare due chiacchiere con i cittadini baracoesi.

 

Dominata dal massiccio del Yunque, offre una natura prorompente e rigogliosa, che si condensa nel parco nazionale di Humboldt, uno dei più ricchi di piante rare di tutta l'isola. La punta di Maisì offre riparo alle ultime colonie di Lamantini che anticamente furono identificati con le mitiche sirene, forse per l'origine misteriosa o per gli strani suoni che emettono.

 

In un'isola che ha fatto della rivoluzione la sua bandiera, Baracoa detiene anche il primato di aver dato i natali al primo rivoluzionario della sua storia: il capo Hatuey. Questo condottiero morì bruciato vivo, e non volle convertirsi alla religione cristiana neanche in punto di morte: "Preferisco morire pagano per non correre il rischio di incontrare qualche spagnolo in paradiso".

 

C'è un'altra leggenda legata a questa città, che vede come protagonista il Pelù, un vagabondo vissuto nel secolo scorso, che veniva spesso fatto oggetto di scherzi dagli abitanti. Dopo uno scherzo più cattivo degli altri, sembra che abbia lanciato una maledizione a tutto il paese e da allora, quando capita qualcosa di sgradevole, come ad esempio la pioggia in un giorno di festa, si dice che è colpa del Pelù.

 

 

 

Testo di

Claudia Miniati

da Arezzo, Italia

Foto dal web


Graphic Credits @ Simone Piccinni

Viaggio in Laos e Cambogia - Indocina Mon Amour

Visitare il Laos e la Cambogia è stata un'esperienza indimenticabile.
Il Laos è un paese dove il turismo di massa non ha ancora preso il via. Si passa dalla tranquillità di Vientiane alla poesia di Luang Prabang, per arrivare agli splendidi colori delle montagne del nord.
La gente è sempre sorridente, molto cordiale. Quasi tutti parlano inglese e sono sempre felici di aiutare il turista nel caso ne avesse bisogno.
La Cambogia. Beh, non ci sono parole per definirla, semplicemente magica. I templi di Angkor sono splendidi, Phnom Penh è a volte inquietante e a volte affascinante.

Sono partito da Roma il 15 ottobre 2013 con un volo della Thai. Arrivato a Bangkok ho cercato un aereo per Vientiane, trovandolo sempre con la Thai. La prefettura di Vientiane richiede nel momento in cui si entra in Laos, anche il biglietto per il volo di ritorno. Non era mia intenzione ritornare con un volo da Vientiane per Bangkok, per cui ho risolto il problema acquistando anche il ritorno, ma con un biglietto open che, nel caso non sia utilizzato, viene rimborsato.
Per quanto riguarda il visto, costa 30 dollari, e bisogna presentare una foto.
Vientiane è proprio carina, lungo il Mekong l'atmosfera al tramonto è veramente unica. Si mangia nei ristorantini in riva al fiume per poco più di 2 dollari.$
Ho visitato Talat Sao, che sarebbe il mercato diurno, poi il monumento simbolo del paese, il Pha That Luang, oltre al Wat Si Saket.

 

Da Vientiane mi sono spostato in autobus a Luang Prabang: partenza alle 7.30 e arrivo alle 18.30. La strada era veramente brutta, piena di curve, un continuo saliscendi e, come se non bastasse, l'autista guidava ad una velocità folle.
In autobus ci facevano da scorta due militari armati, visto che lungo la strada c'era il pericolo di imboscate da parte dei banditi Hmong.
All'arrivo a Luang Prabang ho preso un tuc tuc e d'accordo con l'autista mi sono fatto lasciare davanti ad una guesthouse in pieno centro. La città è molto bella, il tempo sembra si sia fermato. Ho visitato il mercato, alcuni dei magnifi wat di cui Luang Prabang è piena, le cascate di Tat Kuang Si e le grotte di Pak Ou. Vale la pena anche salire sul Phu Si, la collina che si trova al centro della città, dalla cui cima si gode un panorama incredibile.


Ritornato a Vientiane, mi sono organizzato per spostarmi verso Paksè.
Anche qui mi sono sistemato in una guesthouse. Ho visitato la città e mi sono procurato il biglietto aereo per Siem Reap. Per uscire dal Laos ho pagato 20 dollari.
All'aereoporto di Siem Reap si pagano altri 20 dollari per il visto e bisogna presentare una fototessera. In aereoporto sono stato avvicinato da un poliziotto cambogiano che mi ha proposto il rimborso del visto nel caso avessi optato per la sistemazione nella guesthouse da lui proposta, io ho fatto finta di non capire e mi sono fatto portare da un mototaxi in una guesthouse vicino al centro. La camera era discreta, con acqua calda e aria condizionata.
Mi sono messo d'accordo con il conducente del mototaxi e mi sono fatto venire a prendere il giorno dopo per farmi portare ad Angkor Wat. L'entrata è cara, 20 dollari per un giorno di visita, ma nonostante il prezzo e il numero impressionante di turisti, la visita ai templi è una cosa da non perdere. Mi sono spostato da un tempio all'altro con il mototaxi, le distanze sono notevoli e farsele a piedi è un vero suicidio.
Il giorno dopo ho visitato la città. Si gira tranquillamente a piedi senza problemi, e una visita al mercato vale la pena farla. Nella guesthouse ho acquistato il biglietto per la barca che il giorno dopo mi avrebbe portato a Phnom Pehn.
All'arrivo si viene assaliti dai procacciatori: mi sono accordato per una sistemazione in centro, con acqua calda, televisione e aria condizionata. Il giorno dopo ho preso a noleggio un mototaxi e mi sono fatto portare al Palazzo Reale e alla Pagoda d'Argento. All'uscita ho ritrovato il mio autista che mi ha accompagnato a fare un giro in moto per la città. Ormai si era fatta sera; vedere Phnom Penh di notte è stato veramente incredibile, vale veramente la pena.
Il giorno dopo visita al museo Tuol Sleng, carcere di sicurezza S-21. Per capire di cosa si tratta basti pensare che tra il 1975 e il 1978 in questo carcere sono state trucidate dopo essere state torturate circa 17.000 persone. Il posto non è consigliato alle persone particolarmente sensibili: l'impatto è veramente forte.
Tappa successiva ai campi di sterminio di Choeung Ek, 15 km fuori la capitale. Il viaggio in mototaxi è stato faticoso, la strada non era asfaltata ed era piena di buche.
E' stata la giornata più pesante del mio viaggio, gli spunti per riflettere su quello che è successo in Cambogia sono stati molti.


La mattina successiva partenza per Kampot. Dopo la frenesia di Phnom Penh un po’ di relax ci voleva.
Ho trovato una sistemazione e dopo due giorni ho raggiunto con un taxi, insieme ad altri tre cambogiani, Sihanoukville.
La spiaggia è bella e il posto è frequentato da molti cambogiani senza problemi di soldi. La sera, per chi ne è amante, ci sono diverse discoteche.
Da Sihanoukville ho preso il traghetto che mi ha portato a Krong Koh Kong, al confine con la Thailandia da dove il giorno dopo ho preso un minibus per Trat. Da qui parte un servizio regolare di autobus per Bangkok, dove purtroppo ho concluso il mio viaggio.

 

 

Testo di

Eugenio Angelieri

da Roma, Italia

Foto dal web


Graphic Credits @ Simone Piccinni

Viaggio a Gerusalemme - Cos'è la felicità?

Seduti a Jaffa Gate, ci si chiedeva se essere liberi vuol dire essere felici. Ci si chiedeva allora cos’è la felicità.

E la libertà.

 

Gerusalemme è mettere alla prova il proprio senso dell’orientamento nei mille vicoli coloratissimi dalla pietra bianca; perdersi tra arabo ed ebraico e non sapere mai come dire grazie, quindi optare per l’inglese 

che è sbagliato comunque; impregnarsi di ebraismo, poi di cristianesimo, poi di Islam e poi accorgersi che tanto non ha senso perché in fin dei conti abbiamo tutti fame alla stessa ora ed inciampiamo nei ciottoli bianchi allo stesso modo; osservare la tomba del più grande rivoluzionario della storia, vuota e non per decomposizione; i cappelli neri grandi, troppo grandi, con payot laterali, i burqa, gli shorts e tutto questo racchiuso in una piccola città vecchia; le mille porte per accedervi ma alla fine la porta va trovata dentro di sé perché Gerusalemme te lo chiede per forza, è lei che vuole entrare dentro di te e ti obbliga ad interrogarti per capirla ed a farle spazio dentro i discorsi con giovani dell’esercito israeliano sul diritto della guerra, sul conflitto, le relazioni a distanza davanti ad una birra ed un narghilè nell’altra Gerusalemme, quella nuova dove l’infelice rallegrante “Happy” risuona immancabile spiazzando il richiamo del minareto; il bambino che si unisce a noi in un pezzo di strada senza una lingua comune ma ci si capisce comunque, l’essere è lo stesso; la stanchezza di fine giornata che qui si chiama gioia; un terrazzo vista-mondo dove viaggiatori solitari e non, estroversi e non, giovani e non, europei e non, ebrei e non, fumatori ed ex, curiosi ed avventurosi (Gerusalemme è fatta solo per questi ultimi) trovano tutti il proprio posto, organizzano una giornata insieme, condividono hints sui propri giorni passati, si incrociano forse per un momento, forse per due, forse per la vita, perché no, come Gerusalemme insegna tutto è possibile; bambini altezza ginocchio orientarsi tutti soli nei vicoli e ballare al suono della musica dei bazar in una terra che ad occhio e croce direi gli appartiene, sia ebrei che arabi; papà ebraici correre al muro per la preghiera tenendo per la mano un bambino; papà musulmani che non tengono per la mano il bambino che così sgattaiola tra le gambe di tutti i colori del mondo; papà cristiani che non li identifichi; stelle di David, kajhal, hummus, falafel, salam al-ekhum, shalom, il rosso degli arredamenti, dei cuscini, dei tappeti, sulle spalle, marrone dei piedi, della pelle, bianco dei palazzi, delle strade, dei muri, grigio del muro; coprirsi le spalle ma cenare per terra; sentirsi a casa; contrattare; capirli, capirsi, capirci, non-capirsi, capire se stessi in un posto incomprensibie.

 

Seduti a Jaffa Gate, si provano libertà e felicità. Ma si soccombe alla guerra violenta e culturale se si tenta di provare, vedere ed odorare la libertà e felicità di loro altri che sono soffocati da questo grappolo di 

emozioni, colori, odori. Essere liberi senza felicità, essere liberi per essere felici, essere felici senza essere liberi è un’impresa.
Soprattutto da queste parti.

 

Testo e foto di

Maria Giovanna Pietropaolo

da Vibo Valentia, Italia

 


Graphic Credits @ Simone Piccinni

Viaggio a Madrid - Cultura madrilena

Questa città è stata una scoperta meravigliosa per me: atmosfera tranquilla, buon cibo a prezzi onesti, musei gratuiti e metropolitana efficente.
Il viaggio è iniziato in aereo, da Pisa. Dall'aeroporto, per raggiungere il centro (e in particolare il nostro albergo), è bastato prendere la metropolitana.

Lasciamo le cose in albergo e pranziamo: sono le 15, entriamo subito nell'orario dei pasti spagnolo. Decidiamo per un locale con tavolini all'aperto in Plaza Tirso de Molina e non ce ne pentiamo: per 10 euro menù di due portate abbondanti e caffè.
Ci dirigiamo subito verso il Palazzo Reale visto che il mercoledì l'entrata è gratuita per tutti i cittadini dell'Unione Europea. C'è una certa fila ma scorre velocemente. Visita consigliatissima!
Continuiamo a girare per il centro e finiamo la serata con un drink in Plaza Mayor.

La prima mattina madrilena, poi, merita una colazione speciale: andiamo infatti alla cioccolateria Valor, famosa per la cioccolata con churros. Davvero un bel modo per iniziare la giornata!
Ci siamo diretti al quartiere di Chamberì dove abbiamo ammirato il tempio di Debod e l'Ermita de San Antonio de la Florida (entrambi gratuiti). Questa zona ci è piaciuta molto perchè ricca di verde e tranquilla.
Il tempio egizio, risalente al IV secolo a.C. fa un certo effetto, mentre da fuori l'Ermita sembra una chiesa qualsiasi, ma invece al suo interno si trova la tomba di Goya, che ne ha anche affrescato la cupola.
Siamo quindi andati nel Paseo del Prado per visitare il Caixa Forum, uno spazio espositivo di arte contemporanea, anche questo gratuito.
Per cena poi, consiglio il locale in cui siamo stati: "Taberna Pulperia Maceiras", ambiente caratteristico e cibo gustoso.


 

La mattinata dopo la dedichiamo ad un bel giro al Parco del Buen Retiro, anche qui si respira un'atmosfera rilassata e rilassante, inutile dire che è tenuto alla perfezione. All'interno del parco erano anche allestite due mostre gratuite.
Dopo pranzo ammiriamo la bella fontana di "Piazza de la Cibeles" e più in generale tutti i maestosi edifici di questa zona. Visitiamo il Museo Navale: costa 3 euro ma secondo me li vale, anche perchè l'edificio era la sede del Ministero della Marina e gli interni sono pregevoli; si possono ammirare riproduzioni di navi, quadri, reperti di vario genere, mappe...
La sera andiamo a uno spettacolo al Teatro Reale, abbiamo infatti scoperto che presentandosi alla bigletteria il pomeriggio stesso dello spettacolo e avendo meno di 30 anni si possono acquistare i biglietti rimanenti con il 90% di sconto! Abbiamo comprato biglietti da 90 euro a 9 euro!
Cena al vicino "100 montaditos":economico e molto frequentato.

La nostra ultima mattinata la dedichiamo al quartiere de La Latina. Visitiamo in particolare il Museo de Las Origines e la meravigliosa Basilica di S.Francesco famosa soprattutto per la sua cupola (nel prezzo d'ingresso è compresa anche la visita guidata in spagnolo).
Infine in serata approfittiamo dell'ingresso gratis al Prado dalle 18 alle 20. Questo museo racchiude una quantità di quadri inimmaginabile, mi sono davvero pentita di non avergli dedicato più tempo... non abbiamo nemmeno visto tutte le sale!
Stasera in giro c'è molta più gente, noi però purtroppo domani mattina dobbiamo ripartire. Peccato..


 

Testo di

Valentina Scanzanelli

da Vicenza, Italia
Foto da web

 


Graphic Credits @ Simone Piccinni

Viaggio nel Cilento - Mondo d'altri tempi

Si presentavano come masse pannose, compatte. Erano le nubi che osservavo dalla finestra che dava sulla vallata di Prignano Cilento, alloggiato tra le montagne, affacciato sul mare di Agropoli. Osservavo la distesa verdeggiante che si inverdiva di una tonalità  più scura, tra le pieghe delle colline che potevo quasi carezzare sotto il balcone. Distesa che mi portava lontano, verso un orizzonte fatto di sogni e speranze. Ero assorta a contemplare gli alberi di fico, quando ad un tratto uno stormo d'uccelli taglia le nubi e accarezza il sole, possente figura che domina la giornata. E profumo di oleandri mi inonda le narici, profumi di pietanze casalinghe, profumo di pane appena sfornato.

 

Bevo il mio caffè, mi abbiglio d'un abito leggero, tipico della stagione estiva e mi tuffo nella realta'  di questo paese perfetto, pulito, che sembra dipinto dalla mano di un abile artista, su una tela che rimarrà eterna. Sento il rintoccare delle ore che passano. La campana della chiesa suona, racconta di tante storie vissute a Prignano - rimbomba nelle mie orecchie, come una soave melodia. Gli uccelli cinguettano e mi accompagnano sulla terrazza panoramica del paese, che dà verso il mare. Eterna ed immensa profondità  d'azzurro, che dipinge disegni da lontano, con le sue sfumature. Sull'orizzonte, così distante, intravedo un'imbarcazione. Oggi e' cosi' piatto, a vederlo da quassù, che pare una tavola disegnata. Si specchia il sole sulle sue onde e immagino di sentire il fragore delle onde sugli scogli e di vedere la bianca spuma lambire la spiaggia.

 

Mi inoltro in mezzo ai vicoli di questo paese che mi infonde calma e serenità e mi illude di vivere in un sogno dove la vita e' perfetta, dove tutto accade, come programmato dalla nostra fantasia. Una casa diroccata richiama la mia attenzione: un lampione dal vetro rotto, sovrasta su un balconcino di cui e' rimasta solo la ringhiera (la base in cemento è pressoché inesistente, abbattuta da chissà  quale evento). Un negozietto. Due giovani fratelli mi salutano con cortesia. Mi prodigo di fronte agli scaffali del loro piccolo esercizio, in cerca di qualche prodotto locale. Mi stupisco di come, in un paese così piccolo, i prezzi dei prodotti siano più bassi che altrove, persino più convenienti dei centri commerciali. E allora decido che durante la mia vacanza a Prignano, saranno loro i miei fornitori di ogni qualsivoglia bene primario di cui io e la mia famiglia avremo bisogno. Con le buste della spesa, raggiungo la piazza e lì, meraviglia mi colpisce i sensi.

 

Poggio il mio "bagaglio" su di una panchina e mi affaccio alla terrazza che dà  sulle montagne. Dolcemente, le verdeggianti alture abbracciano la vallata e sue casette. Lampioni proiettati verso il cielo, posati qua e là, tra le abitazioni che a guardarle di sera, illuminate, sembrano un presepe. Prignano. Fichi bianchi e tradizioni vive. Sagre festose nei dintorni, vini e dolci, balli, musica e folklore. Mondo d'altri tempi. Una coccola per l'animo mio, una perla della nostra Italia.


 

Testo di

Marta  Giuseppucci

da Fregene, Roma, Italia
Foto da web

 


Graphic Credits @ Simone Piccinni

Viaggio in Vietnam - Tra barche e cunicoli

Il mio viaggio in Vietnam è cominciato con un volo di linea Cathay Pacific da Milano Malpensa ad Hong Kong, e poi un altro da Hong Kong a Saigon di circa due ore, sempre con la stessa compagnia.

L'arrivo, come dicevo, è stato ad Ho Chi Minh City: l’impatto con quest'enorme città conosciuta anche come Saigon dopo più di 14 ore di aereo è stato molto forte, impossibile spostare lo sguardo senza incrociare una moltitudine di motorini che si muovono caoticamente su strade e marciapiedi, senza rispettare alcuna regola - nemmeno quelle del buon senso -. Eppure Saigon, tra il rumoreggiare del mercato a Cholon - il quartiere cinese nel quinto distretto - e i minuscoli ristoranti coi tavoli di plastica sui marciapiedi, sa anche sorprendere con angoli di pace e tranquillità dentro le pagode e nella cattedrale.

Poi mi sono spostata sul Delta del Mekong. Questa zona nell’estremo sud del Paese è un caleidoscopio di colori adagiato sull’acqua limacciosa di uno dei fiumi più lunghi e più inquinati del mondo. La vita qui si svolge sull’acqua, con palafitte precarie abbellite da vasi di fiori sgargianti, scorre lenta su barche di legno condotte a remi. Le attività più popolari sono legate alla terra, resa rigogliosa dagli straripamenti del fiume: il riso certamente la fa da padrone, ma si coltivano anche frutti gustosi in quantità industriale, oltre alla vendita di caramelle al cocco e dolci di riso soffiato.

Merita una menzione anche Can Tho: la cittadina più popolosa del Delta del Mekong. Non ho avuto modo di visitarla bene perché è una buona base di partenza per visitare all’alba il mercato galleggiante di Cai Rang, comunque durante un rapido giro dopo cena ho avuto modo di osservare le decorazioni di Natale più fastose che abbia mai visto e, la mattina dopo alle 5, una quantità di persone incredibile che si riuniscono lungo il fiume e fanno thai chi e aerobica.

A Cai Rang si svolge il mercato galleggiante dalle origini antichissime, che resiste alla modernizzazione e all’invasione dei turisti. Svegliarsi prestissimo significa beccare il mercato nel pieno degli affari che, è risaputo, si fanno meglio la mattina molto presto. Spostandosi su barche di legno, i mercanti vendono le proprie merci alle altre barche, distinte l'una dall’altra da una canna con alla sommità il prodotto in vendita: una barca con una canna con un ananas venderà ananas, una con le rape venderà le rape, ecc. ecc. Il tutto affiancato da rumorosissime barchette che si aggrappano ad altre barche per vendere caffè caldo e colazioni vietnamite.

Per avere almeno una vaga idea di cosa fosse vivere durante la guerra, invece, bisogna venire a Cu Chi. Qui, infatti, si trovano le gallerie sotterranee dove molti vietnamiti hanno vissuto, resistendo per anni, organizzando la propria vita nel buio. Un breve giro dentro quei cunicoli mi è stato sufficiente per sentirmi affogare. E per farmi pensare. Molto.


 

Testo di

Serena Ravellii

da Bergamo, Italia
Foto da web

 


Graphic Credits @ Simone Piccinni

Viaggio in Tunisia - Paradiso a portata di mano

Il clima, a Djerba, è molto caldo d'estate, ma anche gli inverni sono parecchio miti. Durante il nostro soggiorno, la temperatura andava dai 36-40 gradi di giorno ai 25-30 di sera. Il suolo di Djerba è arido e spoglio, predomina ovunque il colore bruno della terra, ma fortunatamente le palme rendono l'aspetto dell'isola quello di una grande oasi.
Le case – menzel – sono basse, con le grandi cupole rotonde tipiche della cultura araba; bianche, ma con le finestre e le porte azzurre: bianco per respingere i raggi del sole, azzurro e blu per allontanare i numerosi insetti.

 

Il nostro hotel si trova era nella zona turistica di Sidi Mehrez, sulla costa nord-orientale. Qui si condensa la maggior parte delle strutture ricettive e le spiagge sono ben curate e di sabbia bianca. La spiaggia di Sidi Mehrez è molto lunga, bagnata da un mare basso e pulito. Quando il mare è calmo, soprattutto al mattino, grazie al suo fondale di sabbia bianca, assume una limpidezza incredibile e un colore verde-turchese.

Durante il soggiorno abbiamo fatto due escursioni: il giro dell'isola in pullman e la visita in barca all'Isola dei Fenicotteri.

Il giro di Djerba è stato molto interessante; come prima tappa ci siamo diretti al Ponte Romano che collega l'isola alla costa tunisina. Successivamente abbiamo proseguito verso la cittadina di Guellala, famosa per le di ceramiche e per i manufatti in terra cotta. Abbiamo visitato laboratorio, in cui venivano prodotti all'istante vasellami vari. A Guellala c'è anche un grande museo degli usi e dei costumi arabi, arroccato in cima ad un promontorio, dal quale si può godere dell'asprezza e del fascino del paesaggio di Djerba.

Di nuovo in pullman abbiamo raggiunto Houmt Souk, chiamata così perché è la città dei souk, dei mercati. E' la città più grande di Djerba o, più correttamente, l'unica. Le maggiori attrattive sono appunto i mercati all'aperto, dove si vende un po' di tutto, dal vasellame alla bigiotteria, dai tappeti alle spezie, dagli abiti ai fiori e così via. Le vie principali sono punteggiate di bazar, ma è impossibile osservare per più di qualche istante la merce esposta, per colpa dell'insistenza dei negozianti che vogliono a tutti i costi farti comprare qualsiasi cosa. Se fate acquisti in Tunisia, ricordatevi di contrattare sul prezzo, diminuendo la richiesta iniziale fino al 50%: non preoccupatevi, non ve ne state approfittando, state solamente assecondando la cultura locale.

 

Con l'escursione all'Isola dei Fenicotteri, invece, ci siamo potuti gustare un mare incontaminato e un paesaggio d'altri tempi. L'isoletta è praticamente il prolungamento della parte nord di Djerba. E' chiamata così perché l'unica popolazione consiste nei fenicotteri rosa che la prendono come base nei mesi più freddi.
Siamo partiti con una barca dal porto di Houmt Souk e dopo un'oretta di navigazione siamo arrivati. E' una lingua di sabbia candida con piccole dune, priva di vegetazione, che si estende per circa un chilometro. Il mare è davvero bellissimo, caldo, trasparente, di un verde giada; incredibile essere in un luogo dove non abita nessuno e vedere una lunga spiaggia deserta che sembra non finire mai. Uniche costruzioni presenti delle capanne con delle panche in legno, adibite a ristorante per i turisti. Qui abbiamo mangiato del pesce freschissimo, al ritmo dei canti e del cabaret, proposti dagli stessi camerieri che avevano cucinato per noi. Un vero paradiso a portata di mano.

 

Testo di

Emilio Cecchini

da Prato, Italia
Foto da web

 


Graphic Credits @ Simone Piccinni

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