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Baraka - Viaggio in Marocco, atto I°

Il silenzio condizionato dell’incubo è arrivato fin qua, penso buttando un occhio sul condizionatore che non funziona e sulla copertina del libro che ho portato da leggere durante le pause e le attese che questo viaggio porterà con sé. L’autore del libro è quella testa vagabonda di Henry Miller che, dopo un viaggio coast to coast nei suoi Stati Uniti negli anni 50, concepisce una sua personalissima visione del sogno americano e scrive per l’appunto, “Incubo ad aria condizionata”.

Sto ascoltando Battiato come succede spesso, e le immagini che “voglio vederti danzare” richiama nella mia mente combaciano perfettamente con le atmosfere che ho trovato qui a Meknèss. Sono arrivato in Marocco due giorni fa, nel nuovo aeroporto di “Fes-Saïss”. Dopo la coda per entrare nel paese e cambiare gli euro in dirham, esco dalla struttura. Fuori è tutto un cantiere: il tassista che mi accompagna in città dice che non sono passati molti anni dalla sua inaugurazione.

L’unica notte in ostello del mio viaggio, mi dà la possibilità di apprezzare Fes da una bellissima terrazza. Rimango impressionato dai vicoli della medina, dai colori del mercato (souk), ma anche dal numero spropositato di antenne paraboliche che ricoprono come funghi i tetti delle case. Quando la mattina dopo esco per un giro tutti per strada provano a vendermi qualcosa, tutti parlano più di una lingua: ricordo un ragazzino sugli 8-9 anni che prima di indovinare la mia nazionalità ha sparato una sequela di saluti e benvenuti in almeno cinque lingue. Fes è caotica, agitata; il momento più rilassante lo trovo bevendo un tè alla menta in un cafè con terrazza. Mentre sorseggio l’infuso marocchino ben zuccherato, mi accorgo di essere l’unico cliente: è novembre e non ci sono molti turisti.

Da qui prendo il treno per raggiungere Meknèss. In stazione mi colpisce, oltre alla puntualità e alle condizioni impeccabili del treno, la presenza di un baracchino alimentato a energia solare, che da la possibilità a tutti di ricaricare cellulari e computer. Un paese a due facce, mi dico, capace di innovazioni come questa e di ritardi clamorosi in altri ambiti. Il viaggio in treno prosegue senza intoppi, e in un’oretta e mezzo arrivo a destinazione.

Meknèss è una città berbera, più piccola di Fes, molto più tranquilla. Attiro l’attenzione di più di un commerciante, ma nessuno è pressante come mi era successo in precedenza. Anzi, la gente è molto disponibile, e dopo aver girato un po’ per confrontare qualche prezzo, trovo un bel riad non lontano dalla piazza principale. Un riad è una sorta di albergo a conduzione familiare, dove si ha la possibilità di essere ospitati in tipiche case marocchine a prezzi ragionevoli.

Qui vicino c’è anche un ottimo ristorante dove incontro il proprietario, un signore sulla sessantina che mi racconta che da giovane era un commerciante e di come ha girato il mondo. Mi parla in un ottimo francese del suo paese, di come sia spaventato dall’innovazione tecnologica e dalla globalizzazione; dei giovani che perdono interesse per le tradizioni e del governo che svende le materie prime marocchine agli ex- colonizzatori. Mi chiede di scrivere una dedica in un guest book improvvisato, pieno di saluti e apprezzamenti sulla cucina di sua moglie. Unisco allegramente la mia firma alla folla di grafie.

Lo saluto e riparto verso il mio riad. Entro in camera e mi sdraio. Dopo un po’ parte il canto dei muezzin, facendo viaggiare la mia mente sui ricordi ancora freschi di questi primi giorni lontano da casa.

Cinque volte al giorno si sentono le urla strazianti e mistiche che sono sparate a tutto volume dagli altoparlanti gracchianti appesi in alto ai minareti. I corvi vengono attratti da questi canti; i merli e molti altri uccelli si inseguono a stormi, disegnando onde nei cieli.

La cicogna fa il nido proprio sulla punta dei minareti. Vola maestosa e solitaria sulla città, fiera guardiana del tramonto splendido che ricordo di aver visto morire oggi, poco sopra le mura di Meknèss. Stava volando verso di me e io avevo sulla faccia la luce arancione che rimaneva del sole; anche in quel momento i muezzin hanno cominciato a cantare le loro preghiere, salmodiando parole a me sconosciute, parole antiche, mistiche, magiche. Improvvisamente tutto si è fermato, solo il loro canto spezzava l’aria. Si è creato come un silenzio di sottofondo, e si è fatto profondo. “Il silenzio era vivo, sembrava che t’ascoltasse”.

Se v’è capitato almeno una volta di sentirlo, capirete. Altrimenti cercate di immaginare: s’alza un canto, dapprima solo uno, poi gli fa eco un altro, e altri due fino a diventare un coro, fino a che, per una decina di minuti, la città ne esala da ogni minareto, e la musica della voce umana portata dal vento si espande a macchia d’olio tra i souk e le bab (le porte), i riad e le piazze. Alcuni hanno voci splendide, altri no, e in altri contesti sarebbero definiti stonati, ma in questo caso partecipano tutti alla bellezza collettiva. Tutte le voci cantano in preda a una profonda fede, il cui culmine giunge nell’esplosione di un coro che celebra la grandezza e la perfezione di Dio e del creato. Pare in quei momenti che tutto acquisti valore in termini di senso e significato, che in tutto sia presente una traccia di divino e che l’immensità e la complessità del cosmo siano facilmente percepibili.

Il giorno dopo esco per strada, faccio un giro. I marocchini parlano un francese violentato, per assurdo più facile da capire per me che di francese so poco e nulla.

Passeggiando per strada, entrando nei palazzi e nei vicoletti, mi accorgo che tirano fuori tutto il loro splendore e la loro abilità nelle decorazioni dei muri, delle porte,de i mosaici, delle ceramiche e delle vetrate colorate: azzurre, rosse, verdi.

Colori accesi e vestiti dai tessuti sgargianti e spessi. Le ragazze hanno il velo, ma a volte no. E hanno gli occhi scuri, profondi e affascinanti. Sogno corpi da favola nascosti sotto i vestiti. E seni grandi, seni piccoli, pancette morbide nascoste dalle tuniche che non lasciano intravedere niente.

Il loro artigianato riflette la loro particolarità: per quanto all’apparenza tutto nelle loro vite possa apparire confuso, abbandonato al caso e al trambusto, ricercano la perfezione con infinita pazienza e arrivano a sfiorarla, se non addirittura a modellarla sapientemente, con i polpastrelli delle loro abili dita. Incisioni di geometrie perfette, che richiamano alla mente composizioni vegetali frattaliche, galassie, foglie e foreste; tutto questo solo sul lampadario che pende dal soffitto della vostra camera.

Vetri colorati, porte in legno massiccio, intarsiate di disegni antichi come la notte. Le olive, addirittura le olive, vengono disposte in ordine maniacale nelle loro ceste; tutte lucenti, appoggiate una all’altra, incastrate come mattoni di un muro colorato di spezie piccanti e verdurine sott’olio tagliate a fette. Questo è Baraka, lo spirito dentro le cose, che nasce proprio dall’abilità, dalla cura e dalla passione che un artigiano mette nel lavoro che fa. Un termine marocchino che deriva dal sanscrito e indica qualcosa di assolutamente apprezzabile e percepibile nella compiutezza dell’oggetto.

Come dargli torto? La frutta, i vestiti, le scarpe di pelle. Tutto nel caos trova un perfetto ordine, è inutile negarlo. In questo sono un ossimoro umano vivente se si prende in considerazione la sporcizia ovunque, le zone abbandonate alla noncuranza, la mancanza d’igiene e di infrastrutture necessarie.

Sicuramente il processo di globalizzazione che interessa tutto il pianeta, anche in Marocco porta con sé contraddizioni palesi e preoccupanti. Mi ricordo Karim in stazione a Meknèss,un mio coetaneo che sul treno per tornare a Fes mi raccontava i suoi progetti e i suoi pensieri. Pensava al Canada, voleva mettere su con un amico un’azienda per occuparsi di sicurezza sul lavoro. Quando gli ho chiesto cosa pensava del suo paese e della modernizzazione mi confermava i timori avuti dall’anziano proprietario del ristornate.

Disse che l’occidentalizzazione del Marocco lo infastidiva, soprattutto quando la maggior parte delle industrie era in mano a coorporations multinazionali straniere, specialmente francesi.Un paese che come tanti altri sta facendo i conti con i fantasmi dell’occidente e lo spettro dell’omologazione culturale derivata da quella economica, in cui le tradizioni sopravvivono e si modificano, adattandosi ai tempi in continuo cambiamento.

Ma le olive, belìn, le mettono in ordine per bene.

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