top of page

La strada è la cura - Viaggio attorno al mondo, Atto III

Pardon, Senegalese Embassy?

Penso di avere esagerato un po' nei giorni passati. Non mi sono sentito bene e mi sono lanciato in un'avventura forse eccessiva per le mie condizioni. Ad ogni modo, grazie alla mia testardaggine, sono riuscito lo stesso ad incamerare dei gran bei ricordi di questo paese, in cui prevalentemente regnano il deserto, la povertà e gli infiniti controlli. La tenacia necessaria ad affrontare quest'esperienza a tratti mi stava lasciando, a causa del malessere fisico provato nei giorni passati. A darmi forza è stato l'incontaminato cielo stellato che ha illuminato la mia via per l'intera notte.

Il treno che va da Nouadhibou a Zouerat in Mauritania è il più lungo del mondo: quasi tre chilometri, composto da circa duecento vagoni. Nonostante questo, sono solo due le carrozze adibite esclusivamente ai passeggeri: prima e seconda classe, per cui bisogna acquistare il biglietto con largo anticipo. L'alternativa è usare il treno come trasporto gratuito salendo sulle carrozze merci, dove viene riposto il ferro; ovviamente è stata la strada che ho deciso di intraprendere. Quando il mezzo si è fermato davanti ai nostri occhi, all'improvviso tutti hanno cominciato a correre verso l'unica carrozza abitabile, chi con un pacco sulla testa, chi con due valigie sulle spalle, chi scalzo con in grembo suo figlio. I primi che riescono a salire, caricano senza sosta bagagli dal finestrino e alcuni tentano pure di entrare dalle aperture insieme alle valigie. Guadagnarsi un posto al coperto su questo treno è una lotta all'ultimo sangue. Ho trascorso il viaggio con al mio fianco dieci agnellini e un tizio, salito in non so che momento della notte, senza scarpe, in camicia e pantaloni corti, mentre io tremavo di freddo nonostante i vestiti che sono riuscito a recuperare dallo zaino. Ah, poi c'era pure un altro ragazzo, che per diciassette ore non ho mai visto né bere, né mangiare, sempre rannicchiato in un angolino. La mia sosta prevista era Choum. "Choum? Choum? Putein!" François, un ragazzo conosciuto da poco, mi si avvicina con la faccia sconvolta: il pick-up che avevamo visto passare alcune ore prima era proprio quello diretto alla cittadina dove sarei dovuto scendere. E solo ora il mio giovane compagno di viaggio si è deciso a dirmi che la mia fermata è passata da qualche ora. Buongiorno. Dopo le famose diciassette ore il treno arriva alla destinazione finale e, grazie ai pick-up che passano a ritirare il carico, siamo giunti in paese: un agglomerato di case tremolanti in pieno deserto, dove la tua faccia ricoperta completamente di sabbia riesce sempre ad attirare l'attenzione dei locali. Chi non vorrebbe vivere qui? Le cicale ogni sera ti cantano la ninnananna, le onde dell'Oceano ti cullano per tutta la notte, un tetto di paglia ti separa dal quell'infinito spazio celeste colmo di puntini luminosi, e poi c'è lui, il Deserto. Chissà da quanti anni è li, quanti tramonti ha visto e quante persone lo hanno fotografato? Probabilmente nessuno. Non riesco a stare qui nemmeno un altro giorno, anche se ho amato mangiare con la gente del villaggio, nello stesso piatto e tutti con le mani. Ho amato dare il buongiorno a tutti gli incontri, che fossero mattutini o serali. Perché sì, qui è sempre il momento di un "bonjour ami". È un motivo in più per sorridere quando quelle persone che conosci da quasi una settimana ancora si ricordano il tuo nome. Ma se mi fermo ora potrei crollare nuovamente nella routine. La spiaggia immensa, l'alba appena uscito dalla tua capanna, o i bocadillos di 50cm ripieni di cioccolata, rimarranno comunque un qualcosa di indimenticabile. Tutto comincia e finisce dalla tua testa e dal tuo cuore. Prova a dargli una revisione costante. Per strada anche il bambino di un anno ha un nome con cui chiamarti. Lo dicono tutti sorridendo, non può esserci cattiveria. In fondo come può fare la differenza solo il fottuto colore della pelle? Dentro al cuore splende in ogni persona lo stesso amore reciproco, quello che nell'ultima settimana mi ha fatto mangiare nello stesso piatto di famiglie che nemmeno conoscevo, non importa se con le mani o con i piedi, se mangiavi di più o di meno, se il colore della tua pelle era verde o gialla: tutti sorridevano. Per loro eri l'ospite da trattare con i guanti, quello importante, quello a cui vogliono far capire la bellezza del loro paese e far conoscere le stupende persone che lo abitano. Nelle mie orecchie continua a rimbombare la stessa parola: "TOUBAB, TOUBAB, TOUBAB!" Saluto la mia famiglia del villaggio e proseguo il mio viaggio con un enorme sorriso stampato sulla faccia. 7 Gennaio 2015, Mi trovo a Rosso, città di confine tra la Mauritania e il Senegal. L'aria è pesante, sento borbottare ovunque, chiunque cerca di attirare la mia attenzione. Qui è possibile trovare di tutto. Solo una fila di macchine e veicoli scassati, caricati all'inverosimile, occupa l'unica ed affollata via verso il "paradiso". Chissà, forse non passeranno mai, o forse dovranno aspettare giorni. Davanti al cancello vengo scacciato bruscamente, non capisco. Un attimo di panico. Tutti chiedono soldi per tasse improbabili, guardie e gendarmeria in primis. Non mollo il mio passaporto. Poi le spinte, quelle vere, e finalmente il timbro d'uscita. Il battello mi scarica sull'altra sponda ed il mio passaporto scompare tra le mani di un poliziotto. Ancora le spinte, l'ultimo faticoso schiocco sulla scrivania: é fatta! Welcome in Senegal, fottuta corruzione. Vengo circondato da un gruppo di giovani, uno di loro mi sta seguendo da qualche ora, sorridendo all'impazzata. Partiamo su di una motocicletta. Prima di partire mi viene offerto il casco, per lui è sufficiente il cappellino. Trenta metri e veniamo fermati al primo posto di blocco. Passo diverse ore a girovagare tra i piedi scalzi e la polvere nella gare routiere di Rosso, alla ricerca di un passaggio per St. Louis. Alla fine mi ritrovo con altre otto persone dentro ad un Mercedes scassato, seduti ovviamente nei posti peggiori (tavole di legno che costituivano, approssimativamente, il sedile posteriore), dove non riuscivo a muovere nemmeno un dito. La distanza era poco più di ottanta chilometri, il tempo impiegato è stato quasi quattro ore. Kyle, il siriano che avevo incontrato in frontiera qualche ora prima e a Choum nei giorni passati, mi offre un letto nella sua camera. Sono ormai gli ultimi giorni del suo viaggio e ci tiene particolarmente a non passare da solo questo suo ultimo giorno. Provo a non sentirmi in debito, ma non trovo il modo di rifiutare. Rimango ancora qualche giorno a St. Louis prima di prendere un granbus diretto a Dakar. Dopo quasi otto ore, ci scarica alle porte della capitale. In un battibaleno il bus scompare insieme a tutti i suoi passeggeri ed io rimango solo nel buio. Un tipo rasta, vestito da gelataio, mi si avvicina parlando in italiano. E’ Seidu, un amico senegalese che è venuto a prendermi e mi ospiterà per qualche giorno a Dakar, prima di riprendere la mia strada.

“L'Africa è la tranquillità, non è mai stato il miglior connubio. Tutto si muove lentamente, troppo lentamente. Cosi lento, che ogni persona che ti ferma, divora almeno 30 minuti della tua giornata. Moltiplica questo per minimo dieci persone, e mezza giornata è andata letteralmente a puttane. Che si tratti di venderti qualcosa o di avere un po' di compagnia, mai, e ripeto mai riuscirete a stare in pace, qui. Da nessuna parte. “ "Vouis Ngaparou?" si volta verso di me lo chaffeur. "No, M'bour!". Tutti scendono ad una grande stazione di servizio. Mi guardo intorno. Non riesco a capire dove sono. Chiedo cosa sta succedendo. "6000 franchi per Ngaparou", afferma un giovane tizio dall'aria stanca e un sorriso a 32 denti. Prendo lo zaino, gli giro le spalle sorridendo e mi allontano dicendogli: "Vous êtes fou, mon ami!". All'altro lato della strada una macchina sta quasi per riempirsi, e con solo 200 franchi vengo scaricato nel centro di Ngaparou. Pantaloncini corti e camicia color jeans, scarpe da ginnastica. Dietro quei capelli biondi si nasconde Berto, il padre di una cara amica, emigrato qui da quasi dieci anni. "Non riuscivo a chiamarti, è incredibile! Cosa fai? Vieni a casa o vuoi rimanere con quei due?" Pensavo che solo nei sogni potessero arrivare a qualcosa del genere, e invece è pura realtà. Una casa da favola, con la piscina e l'Oceano ad appena 25 metri di distanza. "Andiamo ti porto a vedere la fattoria!" Il suo passatempo: l’allevamento di polli, maiali, vacche, cavalli e montoni, oltre alla cura dell'immensa distesa di terreno adibito a coltivazione. Da lontano sembrerebbe una fortezza con quelle torrette ai vertici, a protezione di quel tesoro che, da come lo racconta, è il risultato di una vita felice in giro per il mondo, libero da tutto. Mi racconta la sua vita: sembra un sogno ad occhi aperti: sulle pupille sembra riflettersi il libro dei suoi ricordi, me li sta leggendo pagina dopo pagina. Dalla sua bocca esce svariate volte la parola libertà. È strano, sembra non riuscire a trovarne un’altra diversa per descrivere la sua vita e le sue sensazioni. Sembra però che ogni giorno che passo fermo qui mi stia lentamente uccidendo. Eppure non mi manca niente. E forse é proprio di questo ciò di cui mi dovrei preoccupare. Non riesco più a trovarmi a mio agio con tutte questo comodità.

Dopo una ricca colazione a base di Nutella, l'ultima che vedrò per un lungo periodo, mi rintano nella mia stanza per quasi un'ora: è il momento di fare i bagagli! "Berto, ho deciso di partire." Mi guarda con un'aria che naviga tra lo stupore e il dispiacere. Purtroppo non posso, o forse non voglio più rimanere fermo qui. Potrei ammalarmi, da un momento all'altro. E l'unica medicina è quella di tornare in strada.

Massimo Lo Bianco

THREE

FACES

RECENT POSTS:
SEARCH BY TAGS:
bottom of page