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Il volo infinito - Viaggio in Australia, atto I°

L'italiano a giro per il mondo, è un po' come il McDonald: lo trovi ovunque.

Mi sono appena imbarcato sul volo Emirates da Dubai, con destinazione Sydney via Bangkok, quando una fastidiosa voce stridula mi fa prepotentemente capire che dormirò ben poco. Marcato accento milanese e tono da manager sotto effetto di cocaina. La proprietaria della suddetta voce è una quarantenne bionda, bardata di un tailleur grigio stretto, molto professionale, ideale per un volo da 16 ore. Non sta zitta un attimo, circondata dalla sua crew di sottoposti-soprammobile, che ridono sguaiatamente e si scambiano ammiccamenti falsi come un Rolex da piazza. La manager sproloquia di fusioni, possibili aperture nel mercato asiatico, dell'incapacità del collega X, della troiaggine della collega Y e altre amenità analoghe.

Cerco di sigillare i timpani il più possibile, incastrando a fondo l'auricolare nelle orecchie. Le mie condizioni psico-fisiche non mi permettono di tollerare questo tipo di conversazioni: stanotte ho dormito un ora e mezza al Millennium Airport Hotel, a Dubai. Non che mi sia lanciato in folleggiamenti eccessivi, beninteso, ma la fila al controllo passaporti al mio arrivo da Milano si è svolta con una lentezza disarmante. Ogni documento di ogni singolo viaggiatore ha passato più di dieci minuti sotto lo sguardo vuoto ed alienato degli addetti alla dogana, prima di ricevere il fatidico timbro-via libera. Totale, 4 ore passate in fila. Di Dubai non ho visto praticamente nulla, se non delle surreali aiuole multicolore in mezzo alla strada nel deserto. Macchie di colore che sembrano esser state schizzate lì dall'alto, come pura sfida alla monotonia della distesa di sabbia.

Il volo si prospetta infinito e l'aereo è stracolmo di passeggeri. La cabina semivuota dell'airbus che da Milano mi ha recapitato a Dubai è un lontano ricordo, con i quattro posti disponibili su cui sdraiarmi. A differenza di quello di ieri però, questo ha gli schermi personali per ogni posto, quindi a forza di film e black-jack virtuale, il tempo cola via. Una cosa che però mi manda in bestia è l'assenza della mappa di viaggio, onnipresente fonte di speranza ed informazione sui voli di linea. La puzza di curry rancido che impregna l'aereo è quasi insopportabile. Mi aspetta un lungo viaggio.

Sono in una specie di coma vigile quando servono la cena. Il soffitto della plancia è cosparso di minuscoli puntini luminosi. Non si notavano, con l'illuminazione a giorno. Ora le luci principali iniziano ad affievolirsi, volgendo al rosso, lasciando le lucine accese. Il risultato è un piacevole tramonto simulato, fino ad arrivare nelle ore notturne ad un bellissimo cielo stellato. Non sono però nelle condizioni di godermi la trovata. Istinti omicidi si stanno catalizzando verso la manager milanese, che sta entrando nella sua ottava ora di chiacchiere ininterrotte. Otto ore che, per un tabagista in astinenza come me, vengono moltiplicate per 10.

Non ne posso più, sono allo stremo quando il comandante annuncia in inglese che stiamo iniziando la discesa verso lo scalo di Bangkok. Estraggo una sigaretta dal pacchetto ed inizio a giocherellarci nervosamente. L'atterraggio è delicato, quasi impercettibile. L'alzata dai posti non aspetta lo spegnimento dell'apposito segnale: vedo infatti da svariate parti dell'aereo gente che scatta in piedi, cercando di raggiungere per prima l'uscita. Il tabagismo è una brutta bestia per molti.

Ci fanno scendere e noi, “ordinatamente”, ci affrettiamo alla sala fumatori che risulta essere un cubicolo di 6 metri quadri. Saremo in 70-80 stipati all'interno o assiepati sulla porta sbuffando l'agognata nicotina verso l'interno della saletta. Una sauna gusto tabacco e sudore.

Ripartiamo dopo poco più di tre quarti d'ora verso Sydney. Nonostante la sigaretta appena fumata il viaggio si fa sentire. Sono partito da Firenze più di 24 ore fa e avrò dormito in tutto sì e no 3 ore.La notte stellata interna all'aereo fa a cazzotti col buio color pece del cielo attorno a noi. Niente all'orizzonte, solo vuoto nero. Penso a casa, a Firenze. A tutte le persone che mi sto lasciando alle spalle. Per tre mesi sarò solo, in un nuovo continente. Non conosco nessuno. Ho solamente un numero di telefono di amici di famiglia residenti a Canberra, mai visti ne conosciuti. Potrebbero aiutarmi a trovare lavoro, dicono.

Per ora davanti ho solamente una pagina bianca lunga tre mesi. Non ho bisogno di altro.

Finalmente si vede qualcosa! Una serie di puntini luminosi appaiono lontani e bassi, sospesi in un lago d'inchiostro. Dopo tanto scuro, quelle luci mi fanno un effetto stupefacente: non sento più la stanchezza, la scomodità del sedile e il puzzo di curry. Anche la milanese tace, finalmente. Stiamo sorvolando l'Australia, non ci sono più dubbi. Ho fretta di scendere, d'iniziare ufficialmente l'avventura nella terra dei canguri. Avessi un paracadute mi lancerei all'istante.

Come un bambino di fronte ai regali di Natale, smanio dalla voglia di scartare questo nuovo continente dal suo imballaggio notturno. Ho vent'anni, e sono dall'altra parte del Mondo.

Iniziamo la discesa, mentre il sole fa capolino all'orizzonte. La distesa di area edificata è impressionante per vastità: una grande massa grigio-verde, abbracciata alla baia. Un profilo irregolare e tratteggiato di calette e piccole insenature. Intravedo l'Harbour Bridge, fronteggiato dall'Opera House. Una gioia indescrivibile mi assale, stampandomi in faccia un sorriso inebetito. La discesa prosegue interminabile. Lo skyline di Sydney, colorato di un rosa-azzurro etereo, appare invitante come una fontanella pubblica in mezzo al deserto. Tocchiamo terra e, mentre l'aereo rolla perdendo potenza, io mi sono già slacciato la cintura di sicurezza. Voglio ottimizzare ogni singolo attimo.

Scendo dall'aereo in trance. Le vetrate dell'Aeroporto Internazionale Kingsford Smith mi proiettano già fuori, sempre più impaziente. E invece mi ritrovo di nuovo in coda, all'accettazione. Controlli infiniti, perquisizioni ed ispezioni bagagli scrupolosissime, il tutto all'ombra di enormi cartelli che in tono minaccioso ti spiegano cosa può passare e cosa no, cosa rischia di danneggiare il fragile quanto protetto ecosistema australiano. Un'altra ora che se ne va. A chi devo scrivere per farmi rimborsare tutto il tempo sperperato? Vabbè, sono fuori. Tutto è ondulato, dalla pensilina dell'autobus, ai tetti degli edifici, a testimonianza di uno stretto e profono legame con il mare che li circonda. Finalmente sono qui. L'eccitazione lascia posto ad una serenità oppiacea.

Metto sull'mp3 “Right Here, Right Now” di Fatboy Slim. Non avrei potuto scegliere canzone più azzeccata.

Tutto, dal sole ai sorrisi della gente, dalla mia felicità alla musica che mi risuona nelle orecchie, pare confermarmi ciò che sento: sono nel posto giusto, nel momento giusto.Ho tre mesi, un paio di occhi, orecchie e gambe, un paio di penne, un taccuino e pure una macchina fotografica. Non mi serve altro, andiamo a riempire questa pagina.

Photo credits: Norman Mac Phails

Simone Piccinni

THREE FACES

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