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Documenti, prego. - Viaggio in Ecuador

Il mio viaggio per l'Ecuador comincia da Malmö, la città svedese in cui vivevo, nei primi giorni del novembre 2012. Dopo essere passato via treno da Copenaghen, arrivo ad Amburgo di buon’ora, dove salgo sul mio primo aereo di giornata, destinazione Amsterdam. Raggiungo l'aeroporto olandese in perfetto orario e aspetto l'imbarco per il volo transoceanico che mi avrebbe portato ad Atlanta, penultima tappa del mio viaggio prima del mio arrivo a Quito. Poco prima dell’imbarco noto che tutti i passeggeri sono sottoposti a una specie di breve interrogatorio. Quando arriva il mio turno, un giovane agente di sicurezza vestito con un'eleganza impeccabile mi fa sedere a un tavolo. Immediatamente comincia a bombardarmi con una serie di domande: «Dove vai?» «Ecuador». «Da dove passi?» «Atlanta». «Cosa vai a fare in Ecuador?» «Ricerca in agricoltura» «Che agricoltura?» «Agricoltura della patata». Sguardo imbarazzato dell'agente che molto probabilmente pensa che lo stia prendendo in giro con il più scontato dei doppi sensi. Questo non basta a interrompere l'interrogatorio. «Dove vai a fare questa ricerca?» «Centro Internazionale della Patata». Se mi prende per il culo, pensa, è davvero bravo. «Vai da solo?» «No, vado con un amico». «Dove è questo amico?» «E’ già la». «Mmm...Da dove vieni?» «Dalla Svezia». «Dalla Svezia?!?» «Si vivo in Svezia». «Che fai in Svezia?». Primi cedimenti di palle. «Lavoro e studio». «Perché non sei partito direttamente dalla Svezia?» «Perché costava meno». «Hai qualcosa che provi che vivi in Svezia?». Oh merda. «Sinceramente no». «Non hai nemmeno una carta di credito?». Per un secondo ringrazio la finanza globale e i suoi annessi e connessi. «Ah si !! Quella ce l’ho, ma non c’è niente che possa dimostrare che sia svedese». «OK, va bene. Aspetta un attimo che parlo con il mio capo». Mentre si allontana guardo l'ora, sono già passati più di dieci minuti. Non male, considerando che gli altri passeggeri per sbrigare questa trafila ne avevano impiegati giusto un paio. Per l'appunto, il mio sguardo si posa sul tavolo accanto al mio, dove due ragazze, molto carine e decisamente ben vestite, stanno parlando con un altro agente. Tre domande, due sorrisi, uno sfrusciare di gonna e sono già sull'aereo. Pensiero immediato:« Quanto conta essere bionde, carine ed eleganti invece che essere un barbone, avere dei capelli appariscenti e un maglione sformato di lana di dubbio gusto?». Stando all'esperienza che sto vivendo, abbastanza. Sono perso in queste riflessioni, ormai rassegnato a passare il resto della mia vita a quel tavolo, quando mi si para davanti il superiore del primo agente. Ricomincia l'incubo delle domande. Il tipo riattacca il disco. «Dove vai?» «In Ecuador, detto al collega». Dove passi? Che ci vai a fare? Madonna, solite cose: ricerca, sto tre mesi, vado al centro della patata. Ancora domande, mancanza di prove che dimostrino che vivo in Svezia. Rimango solo io. Aereo in partenza. Panico. Alla fine si convincono a farmi passare. Vai, vai che l’aereo parte. Mentre passo dal metal detector tre addette alla sicurezza mi esortano a muovermi, che stanno tutti aspettando me. Riesco in qualche modo a soffocare l'ondata di offese che sale spontanea verso la mia bocca, raccolgo velocemente tutte le mie cose e parto a corsa per raggiungere l’aereo, ormai in procinto di decollare. Tutto questo mentre mi cascano i pantaloni e cerco di rimettermi la cintura. Non so bene come, ma finalmente sono sul volo per Atlanta. Cominciamo bene.

L'aereo su cui sono miracolosamente salito è enorme e stracolmo di personale. Tutti sono molto professionali ed efficienti. Poco dopo la partenza ci rifilano il solito cibo spazzatura e, nel tempo di una decina di film che non posso ascoltare visto che il mio è l'unico sedile con le cuffie rotte, atterriamo ad Atlanta.

Della città statunitense vedo solo la sala d'aspetto dell'aeroporto e un afro-americano che suona appassionatamente un pianoforte a coda tra il punto informazioni e un Burger King. La mia coincidenza parte dopo cinque ore. Questa volta non ci sono problemi all'imbarco ed esco insieme agli altri passeggeri diretto al veicolo che ci avrebbe finalmente portato a Quito. Il paragone con il mezzo che ci aveva appena fatto attraversare l'oceano era sconcertante: davanti ai nostri occhi si para una carretta che dà tutto meno che l'idea di stabilità. Ancora titubante, salgo le scalette che mi portano all'interno, con il timore che cadano da un momento all’altro. Questa volta ci sono solamente due hostess ad accoglierci. Insieme a me ci sono le due ragazze bionde che mi avevano insegnato, a loro insaputa,un'importante lezione su come evitare un sacco di problemi alla dogana. Durante l'attesa avevamo fatto conoscenza, scoprendo che eravamo quasi vicini di casa, visto che erano svedesi e stavano vicino a Malmö. Le chiacchiere mi aiutano a sciogliere i cattivi presagi e il volo comincia. Oltre a noi ci sono soprattutto ecuadoregni, spesso famiglie intere che tornano a casa. Contro ogni più rosea aspettativa la tratta, che durerà intorno alle quattro ore, procede nel migliore dei modi. Almeno fino alla tragicomica fase finale del volo. Mentre iniziamo a scendere di quota, il capitano ci informa che ci saranno delle perturbazioni e un forte temporale durante il nostro atterraggio. Due mesi dopo scoprirò che per atterrare a Quito serve una speciale patente di volo per via dell’altitudine e della particolare pressione del luogo. Continuando la discesa verso la città, entriamo nel compatto strato di nuvole che ci separa dalla terraferma. L’aereo inizia a subire incredibili sbalzi di pressione, le ali oscillano su e giù in maniera spaventosa. Mi volto e realizzo che questa volta non ci saranno la due svedesi ad aiutarmi a superare il trauma, visto che se ne stanno tranquillamente accovacciate l’una sull’altra, profondamente addormentate. Rifletto sul fatto che è la prima volta che mi capita di provare un’esperienza pre-morte. Intorno a me la gente inizia a preoccuparsi, mentre tutto si muove in maniera incontrollata. Guardo a sinistra, un tipo inizia a farsi il segno della croce in maniera compulsiva e a pregare in spagnolo la Madonna. Questo mi fa paura. Guardo avanti, tutto si muove. Va bene, questo mi fa ancora più paura. Guardo a destra, le due svedesi che dormono ancora come delle bambine. Questo non so bene come mi fa sentire, sicuramente confuso. Continuiamo a scendere su queste montagne russe volanti, superiamo la coltre di nubi e iniziamo a vedere le luci della capitale ecuadoregna (è quasi mezzanotte). Mi rilasso, penso che il peggio sia passato. Magari… L’aereo, da rivolto verso terra, improvvisamente effettua una virata per riprendere quota. In un attimo siamo tutti schiacciati ai sedili, con le orecchie che fischiano e le membra tremanti. Entriamo nella coltre di nubi, questa volta nella direzione opposta. A questo punto penso di essere spacciato e che moriremo tutti. Ammetto di essere stato tentato, in questo frangente, di scegliere la via della preghiera e unirmi con parole a caso al coro che già vedeva protagonisti molti compagni di volo. Il pilota si prende il tempo per risalire, girando intorno a Quito per aspettare il momento giusto per ripiombare nel solito casino folle di prima. Tanto per, guardo alla mia destra: le svedesi dormono ancora. Provare a riscendere nel clima di panico e preghiera risulta essere più assurdo di prima. Trattengo il fiato e ricomincia l’ottovolante dentro le nuvole. Riusciamo a superare lo strato e vediamo di nuovo delle luci, speranzosi che il nostro supplizio sia vicino, in un modo o nell’altro, alla fine. Siamo ormai prossimi alla pista durante la tempesta del secolo: o la va, o la spacca. Pronto a tutto mi preparo a un atterraggio rocambolesco. Invece, con una tranquillità che non pensavo di poter più ritrovare, in pochi minuti il pilota completa le manovre di atterraggio e scendiamo dall’aereo come se niente fosse successo. Soprattutto per le due svedesi. Ancora non convinto di avere i piedi su quella che a tutti gli effetti sembra essere terra, il primo pensiero che mi passa per la testa è che, nonostante tutto, i due voli che avevo affrontato nelle ultime 24 ore qualcosa di simile ce lo avevano: avevo mangiato lo stesso cibo spazzatura.

Fernando Pellegrini &

Niccolò D'Innocenti

THREE​

FACES

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