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Borderline - Viaggio in Tasmania, atto I°

Hobart, 24 aprile 2013

L’ultima sera è sempre un po’ malinconica. Al solito Telegraph Hotel, vicino al porto, sto aspettando un amico per festeggiare la mia partenza di domani, sorseggiando il secondo litro di birra. Come si fa a lasciare un luogo come questo? È dura, soprattutto quando mi balenano in mente le avventure e la gente che hanno riempito la mia vita negli ultimi due mesi e mezzo.

Cos’è la Tasmania? Rispondendo con distacco scientifico, direi che è un’isola situata 270 chilometri a Sud di Melbourne e separata dal continente australiano dallo Stretto di Bass. Quest’isola, insieme ad altre limitrofe più piccole, formano uno degli otto stati federali che compongono il Commonwealth d’Australia. Ma per me è stato qualcosa che va oltre questa mera descrizione geografica e, sicuramente, se mi venisse chiesto, la risposta non sarebbe per nulla breve.

Sono arrivato a Hobart, la capitale, il pomeriggio del 9 febbraio. Situata sul versante ovest dell’estuario del fiume Derwent, la città si abbarbica sulle colline che fanno da contraltare a Mount Wellington, in lontananza. Un saliscendi così ubriacante che a un certo punto, facendolo tutto a piedi con lo zaino in spalla, ho seriamente creduto di avere le allucinazioni. Nonostante il Sole di fine estate, l’atmosfera è acre, sbiadita. L’odore non fa presagire niente di buono, e nemmeno l'adagiarsi di piccoli fiocchi di cenere sulla strada della periferia.

No, non sono allucinazioni: il cielo è rosso dietro Mount Wellington, un incendio sta mangiando un po’ dell’altro versante. Fermo gente per la strada, ma mi dicono che è tutto sotto controllo. Mi pare di capire dalle loro parole che è un’estate nera per l’isola: centinaia di ettari divorati dal fuoco per il clima insolitamente secco.

Per quanto mi riguarda, mi sto dirigendo da un’amica che ho conosciuto due anni fa in Italia. Appena trasferitasi da Sydney, è ospite di amici a West Hobart perché deve ancora cercare casa prima dell’imminente inizio degli studi all’Accademia delle Belle Arti della città.

Ovviamente lei non è in casa, ovviamente non ha detto niente del mio arrivo, e ovviamente l’imbarazzo sta crescendo mentre cerco di spiegare la situazione al ragazzo che mi ha aperto. Dopo vari incespicamenti linguistici, dovuti un po’ all’inglese non perfetto e un po’ alla situazione, mi dice finalmente che non ci sono problemi e che posso restare tranquillamente.

Mentre mi porta a vedere la casa, conosco gli altri coinquilini:

«Ciao! Piacere sono l’ospite dell’ospite, come va?».

Cinque giorni dopo, io e la mia amica, dopo aver visitato le maggiori attrazioni della città, ci facciamo prestare la macchina dalla combriccola di West Hobart per partire alla scoperta di ciò che l’isola ha da offrire. Lei in Tasmania c’è già stata l’anno scorso, ed essendosene innamorata all’istante, ha deciso di andarci a vivere appena possibile.

Mi ci vuole un po’ di tempo, ma dopo aver ripreso le mie facoltà mentali oscurate dal panico e dall’ansia della guida a sinistra, usciamo dalla città e la strada si fa più dritta e solitaria. Ci stiamo immergendo nel verde. La conversazione si sposta sui suoi programmi. L’Università inizierà tra due settimane. Non ha ancora una casa, e nemmeno la sta cercando.

«Per ora questa macchina sarà la mia casa, poi vedrò cosa fare... ».

Quanto mi è mancata tutta questa approssimazione in vita mia! Solo adesso mi rendo conto di aver per lo più vissuto entro schemi canonici, preconfezionati e conformi alle regole. Io, sbigottito da così tanta tranquillità e spensieratezza, non mi ero ancora reso conto, non avrei mai detto, che quello spirito di gioioso fatalismo, di ineffabile menefreghismo per ogni questione, problema logistico o benché minima paura, sarebbe diventato in tutto e per tutto il “mio” stile di viaggio.

Oggi smetto di pormi le domande che fino a ieri mi sembravano fondamentali. Si mangia quando si ha fame; si dorme quando si ha sonno; ci si lava quando si trova un lago, un fiume o un ostello da cui si può scroccare una doccia senza farsi sgamare. Tutto il resto è in più, quasi ridondante e fastidioso.

La Natura e la sua contemplazione riempiono le mie giornate. A Bruny Island provo cosa vuol dire vivere il tramonto: un’altura che protende verso l’oceano sconfinato, ed il faro, unica prova tangibile dell’artificio dell’Uomo. Aspetto che l’astro faccia il suo corso e sparisca rituffandosi in mare.

Tutto riacquista bellezza spogliandosi della fredda e cinica visione scientifica. Ad esempio il Tempo non è più una divisione razionata della giornata fruibile dalle lancette di un orologio, ma sono proprio gli astri e il loro movimento a scandirlo. La galassia tinge le tenebre una volta che il Sole viene a mancare, coinvolgendomi a tal punto da scatenarmi dentro un sentimento di devozione neo-pagano.

Gli “sparuti, incostanti sprazzi di bellezza, tutti sedimentati sotto il chiacchiericcio e il rumore”, citando Sorrentino, sono finalmente visibili e decodificabili.

I giorni passano, e noi continuiamo a mordere lo sterrato della Tasmania, a tratti veramente ostico per la nostra vecchia carretta. Percorriamo le aree rurali del Sud attorno a Huonville, Cygnet e Richmond, fino ad arrivare ai parchi nazionali mozzafiato della Freycinet Peninsula e di Hartz Mountain. Ma forse soltanto un posto è stato particolarmente simbolico per me in tutto questo girovagare.

Da quando ero piccolo sono sempre stato attratto dal concetto di “Confine”, sia come significato letterale, fisico e geografico, sia dal punto di vista metaforico - le mitologiche “Colonne d’Ercole” -. Confini naturali paragonabili a confini metafisici, oltre i quali l’essere umano si deve fermare e accettare la propria inferiorità. Eravamo al cospetto dell’oceano a South-East Cape, in uno scenario commovente. Dopo dieci chilometri di camminata all’interno del Southwest National Park raggiungiamo il culmine, il punto più a Sud dell’isola, dove si dividono l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico. Il vento forte, le immense onde che si scagliano con violenza sulle pareti rocciose della scogliera; oltre l’orizzonte, alcune migliaia di chilometri più in là, solo l’Antartide.

E mentre guardo tutto questo m'invade un senso di pace, e “dorme quello spirito guerriero ch'entro mi rugge”.

Gianluca Bindi THREE FACES

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