top of page

Mojito e Playmobil - Erasmus in Spagna - Madrid, atto I°

Mentre mi riempo il bicchiere di Bacardi bianco mi rendo conto che mi sanguina una mano. “Merda”, penso, “come cazzo è successo?”. Non ricordo, come non ricordo il nome di questo idiota palestrato che mi sta parlando. Ha in mano una bottiglietta di preparato per mojito. E’ una schifezza, ok, ma basta versarla nel Bacardi per avere un intruglio dal gusto accettabile che il cretino chiama mojito. Aggiungi ghiaccio tritato e una sbronza colossale e ti sembra anche buono.

Ma non è questo il punto. Il punto è che mi sanguina una mano, e non ricordo che cazzo è successo. E ho anche perso Stephanie, inglobata dalla festa. Svuoto il bicchiere dall'intruglio simil-mojito e mi congedo dall’idiota con un sorriso storto. Devo trovarla. Spingo via due svedesi che bloccano la porta della cucina parlando sicuramente di cazzate in svedese e mi butto in corridoio.

In salotto la situazione è degenerata: quelli che fino a oggi pomeriggio erano rispettabili studenti universitari, sono regrediti al loro stadio primordiale, abbruttiti dall’alcol e dall’hashish scadente comprato a Chueca.

Ora, per esempio, stanno cercando di sistemare in fila i bicchierini per l’ennesimo giro di vodka alla pesca. Sembra che quella merda chimica abbia fottuto la coordinazione cervello-mano del primate che si sta cimentando nell’impresa, perchè la vodka bagna il tavolino Ikea e il pavimento, ma nessuno sembra farci caso. Tutti ridono, mentre l’amica di Toni con la faccia da zoccola si struscia a uno scimpanzè in mutande che balla in piedi sul divano.

Qualcuno mi chiama per un brindisi, ma no, cazzo, sono già troppo sbronzo. Barcollo e mi spalmo contro lo stipite della porta scorrevole.

«Hai visto Stephanie?», chiedo a Toni, che mi passa accanto abbracciato a una tizia col profilo francese. Ma il mio amico è troppo sbronzo – o son troppo fatto io – e non capisco una parola di quel che mi dice. Vengo trascinato di nuovo in cucina, di fronte all’idiota palestrato di prima. Mi serve un altro mojito, che prendo con la mano sanguinante, sorrido e giro le spalle al cretino. Ho bisogno di aria, questa festa è un carnaio.

Mi lancio verso la microscopica finestra dall’altra parte della stanza, sorpassando corpi svuotati dalle coscienze e riempiti di alcool fino agli occhi. Manichini in mano alla sbronza, che ne dispone come meglio crede.

Alla finestra trovo Fede, il mio coinquilino.

«Fede, cazzo, questa festa è un fottuto carnaio!», lo informo, nonostante dell’evidenza dei fatti, «Dobbiamo andarcene, è ingestibile».

«E’ ingestibile, cazzo!», conviene con me, poi sputa fuori dalla finestra, tenta di girarsi una sigaretta con le dita bagnate di whiskey, rompe la cartina, bestemmia, ride, tossisce.

«E’ ingestibile», ripete. Wow! E’ addirittura messo peggio di quanto mi aspettassi, urge trovare una soluzione.

Con una manata allontano la tizia che stava cercando di affacciarsi alla finestrella. No, troietta, ho combattuto per questo millimetro quadrato di aria, e ora me lo tengo stretto, vai a soffocare più in là.

«Fede, ascoltami», gli dico, mentre le sue palpebre, attirate da una forza etilica verso terra, tradiscono il fatto che non mi sta riservando la doverosa attenzione, vista la difficile circostanza. «Dobbiamo trovare Stephanie», gli dico, «dobbiamo uscire da qui prima che finisca l’ossigeno, cazzo! Sta finendo il cazzo di ossigeno!».

In preda al panico quasi mi butto giù dalla finestra cercando di prendere una boccata d’aria.

«Stephanie è andata via», rantola Fede, «col tizio dei mojito, appena adesso».

Che cazzo sta dicendo il fottuto ubriacone? Il tizio dei mojito l’ho salutato nemmeno due minuti fa, vuol dire che è andato via ora? In questo momento? Con la mia ragazza?

«Li ho visti dalla finestra», dice Fede. Poi un attacco di singhiozzo lo ammutolisce, mentre la troietta di prima riesce a scavalcarmi e a vomitare giù dalla minuscola finestra. Sono troppo sbronzo per queste scene e vomito anche io, ma sui piedi della zoccola.

Toni capirà.

Prendo Fede per la manica del parka che sta indossando nonostante la temperatura equatoriale e mi butto in strada. Sento Toni che mi urla qualcosa dietro, ma riesco solo ad ascoltare il fischio a ottomila decibel che improvvisamente mi accoltella l’orecchio destro. Ho la pressione a puttane. Ho bisogno di una sigaretta.

In strada Stefano e una dozzina di ragazzi stanno aspettando davanti al portone.

«Che cazzo fate qui?», chiedo. La sbronza è ingestibile, barcollo, mi vien di nuovo da vomitare, ma resisto. Fede crolla sul gradino e si appoggia violentemente contro il muro. Stefano ride. Gli chiedo se ha visto Stephanie, e quello mi risponde che è andata via, con Xavi.

«E chi cazzo è Xavi?»

«Quello dei mojito»

«L’idiota palestrato?»

«Sì».

Bestemmio e tiro fuori il cellulare. Provo a chiamarla ma non risponde. La troia.

«Be’, voi dove andate?»

«Al Kapital»

«Fede, andiamo al Kapital?», chiedo, rivolto a quel che resta del mio coinquilino.

«Cazzo se ci andiamo!», risponde, pur rimanendo sdraiato contro il portone. Grande Fede, non si abbandonano gli amici nel momento del bisogno. Ora bisogna solo gestirsi la botta fino a quando non raggiungeremo la maledetta discoteca, e poi si fotta il mondo. Accendendomi una Lucky mi informo sull’itinerario, che ovviamente non ascolto, dato il mare alcolemico in cui nuotano le mie sinapsi. Quando capisco che Stefano ha smesso di parlare annuisco e sputo in terra con solennità.

«Andiamo!», dico.

«Vamos!», risponde.

Il viaggio in metro sarebbe passato senza problemi, se una delle tipe che ci trasciniamo appresso non avesse deciso di vomitare a due centimetri da una vecchia. La signora non l’ha presa bene, e ci ha insultati per venti minuti in spagnolo, mentre noi ridevamo e prendevamo per il culo la ragazza che, onestamente, aveva bisogno più di un letto che di una serata in discoteca. Cazzi suoi. Se non la reggete, beh, statevene a casa.

Fatto sta che ora stiamo camminando verso il Kapital, con l’aria fresca della noche madrilena che aiuta non poco a riprendersi dalla botta immensa raccattata a casa di Toni, e con Fede che mi da supporto psicologico per non pensare a quella zoccola di Stephanie che se ne è andata via con un idiota palestrato e il suo maledetto intruglio per mojito. Anche la ragazza della metro si è ripresa e le vibrazioni sono decisamente positive.

Ma, come sempre, ecco l’intoppo. Una coda di minimo quaranta minuti di fronte alla fottutissima entrata. E cos’altro? Almeno venticinque quintali di carne in divisa a controllare che nessuno turbi l’ordine pubblico e la tranquillità di quei maledetti che al sabato sera se ne vanno a letto alle nove.

«Che cazzo è questo?», chiedo, rivolto più a me stesso che a qualcuno in particolare. Mi risponde Stefano.

«Coda», dice. «E sbirri», aggiungo.

Poi mi rendo conto che l’erba l’ho finita da almeno tre ore, quindi mi tranquillizzo e mi avvio imprecando verso il fondo della coda, dietro a un gruppetto di ragazze che probabilmente si son dimenticate di mettersi i pantaloni, ché la maglietta a stento copre le mutande. In che cazzo di posto ci stiamo infilando? Perchè abbiamo bisogno di chiuderci in stanze grandi come campi da calcio, al buio, ad ascoltare musica che è rumore, a puzzare di sudore e sigarette, a cercare disperatamente di scambiarci la saliva con qualche ragazza che, di sicuro, è abbastanza ubriaca o abbastanza troia da non preoccuparsi dell’odore che emano alle tre di notte dopo almeno cinque ore di bevute? E’ così che la mia generazione sta sacrificando il suo futuro? E’ per questo, per questo surrogato di divertimento che stiamo sacrificando la possibilità di cambiare il domani, credendo in qualcosa di diverso dalla musica elettronica? Mi accendo una Lucky e metto in stand-by il cervello per dieci secondi. Non faccio in tempo a ritrovare il filo del mio bel discorso mentale che un movimento confuso a destra mi distrae dai miei pensieri da ubriaco. Gli sbirri stanno menando un tizio in parka. Fede!

La coda avanza, Stefano e le troiette senza pantaloni entrano dentro, io riesco a sfilarmi all’ultimo e corro verso la fermata dell’autobus dove i questurini bastardi stanno manganellando il mio coinquilino. Perchè, poi, stanno manganellando il mio coinquilino? Cosa mi sono perso?

«Che cazzo sta succedendo?», chiedo a un ragazzo che riconosco del mio gruppo, nonostante ignori il suo nome.

«Fede ha lanciato un giornale per aria, e questo è atterrato in testa a uno sbirro», mi risponde in uno spagnolo dall’accento nord-europeo. E’ lo svedese che sparava cazzate in svedese alla festa di Toni.

Intanto gli sbirri continuano a malmenare il mio amico che ormai è sdraiato sulla panchina e si protegge la testa coi pugni. Mi lancio verso di lui, ma vengo fermato da una puttana in divisa.

«Che cazzo state facendo?», gli chiedo.

«Ha aggredito un pubblico ufficiale», risponde, mantenendo quel distacco rigido da protocollo con cui gli sbirri spesso nascondono la paura e la coscienza sporca.

«Ma che cazzo state dicendo? E’ ubriaco, ha lanciato un giornale per aria, porca puttana, lasciatelo stare!».

Quella non risponde e si limita a tenermi lontano dal mio amico, che intanto è stato caricato su una macchina della polizia e, ridendo, mi saluta dal finestrino facendo le corna agli sbirri che si frappongono fra me e lui.

«Ma non vedete che è ubriaco, cazzo, lo volete lasciar stare?», continuo a dire ai poliziotti che, in silenzio, si limitano a guardare un punto alle mie spalle, come i manichini dei grandi magazzini. Maledetti pupazzetti in divisa. Servono a poco le mie proteste, la macchina con Fede accende i lampeggianti e parte a razzo sui viali.

«Dove lo portate?»

«A la comisarìa», risponde la puttana in divisa. Tante grazie, troia, si vede che ti diverti a masturbarti col manganello, repressa di merda.

Mi giro e sto per lanciarmi verso la stazione dei taxi, quando vedo Stefano che esce in camicia dalla discoteca.

«Che cazzo succede?». Non ho voglia nè tempo di spiegargli.

«Vieni!», gli dico, prendendolo per la manica.

«Dove? Ho la giacca dentro!» «A la comisarìa», gli rispondo.

«Eh?!» Non gli rispondo più, mi limito a lanciarlo dentro al primo taxi che trovo alla parada. Guardo il taxista, avrà più o meno la mia età, pizzetto, maglietta carhartt. «Dove andiamo?», chiede. «A la comisarìa», rispondo. «Sbirri di merda», aggiungo in italiano.

Il taxista non parte, mette in folle, si gira a guardarci. Quel che vede sono due italiani pesantemente segnati da una nottata alcolica, uno col cappotto lungo pesante e una mano insanguinata, visibilmente scosso, che lo esorta a fare in fretta. L’altro in camicia aperta fino a metà bottoni, almeno cinque piercing tra faccia e orecchie e una gran fatica nel tener aperti gli occhi. La domanda «que pasò?» è più che giustificata, direi. Sarò breve: «Hanno arrestato il mio amico. Voglio vedere dove l’hanno portato. Sbirri di merda».

Lui sorride, mostrando di apprezzare l’epiteto che ho appena assegnato ai solerti tutori dell’ordine.

«Bueno», dice, ingranando la prima, «vamos!». Parte facendo fischiare i pneumatici sull’asfalto, giusto dieci metri più in là del cordone di sbirri in modalità playmobil che presidiano l’ingresso di quel buco fumoso che qualcuno osa chiamare locale. Si è appena guadagnato la mancia.

To be continued...

Dario Bosio THREE FACES

RECENT POSTS:
SEARCH BY TAGS:
bottom of page