Tre lattine da trentatrè a testa aiutano a mettere in fila una strategia etilica decente, che suggerisce di continuare sulla strada verso Huertas, vista anche la vicinanza alla zona dove stiamo deambulando attualmente. Sono nemmeno le due, la notte è ancora lunga e, beh, un salto alla Lupe non è per niente una cattiva idea.
«La Lupe!», esordisco io, nel mezzo di una Plaza del Sol che non è mai stata così surreale.
«Che problemi hai?», chiede il mio compagno, che evidentemente ha la ricezione disturbata dal fischio che gli abita nell’orecchio destro. Gli ripeto la nostra destinazione, trovandolo pienamente d’accordo.
In meno di venti minuti siamo di fronte al locale. Non prima, ovviamente, di esserci fermati per un’altra trentatrè a testa dal chino all’angolo e aver svuotato le vesciche su un cassonetto qualunque nei vicoli dietro Plaza del Sol.
Entriamo nel microscopico bar, io barcollando e Fede zoppicando, dunque senza suscitare nessun sospetto di essere persone perbene o salutiste nel buttafuori, il quale, dunque, gradisce la nostra presenza, in quanto clienti che si mostrano ben propensi a spendere un patrimonio in superalcolici.
Appena entrati la temperatura semi-polare che ci accompagnava nei vicoli fino a qualche secondo prima si trasforma nella più asfissiante e pestilenziale sauna di cui le narici possano godere. Il posto è talmente pieno di gente che camminare è non solo impossibile, ma semplicemente improponibile, impensabile.
Dopo una lotta di qualche minuto riesco ad avere la meglio su una grassa mulatta che occupava minimo quattro posti al bancone e, grazie a una cavalleresca gomitata che la lancia nel mezzo della calca, io e Fede possiamo finalmente appoggiare i gomiti al bancone, e ordinare due meritatissimi mojito, fatti perbene, perdio, senza intruglio chimico, né cazzoni palestrati, né ragazze emotivamente disturbate.
Non fosse che qui dentro ci sono ottomila gradi e puzza di whisky rancido, mi sentirei in paradiso. Ma forse anche in paradiso c’è puzza di whisky rancido. Non lo so, non frequento certi ambienti.
Manco a dirlo i due mojito finiscono in uno zerodue. Sto per lanciare il braccio a bloccare il barista per chiedere il secondo giro quando una ragazza dal viso dolce e la sua amica cozza attaccano a parlare con Fede. Ancora mi sfugge il motivo per cui le ragazze dal viso dolce devono girare sempre con un’amica cozza, ma questo probabilmente è uno di quegli enigmi che l’uomo non risolverà mai, come la quadratura del cerchio e la ragione per cui Berlusconi è al governo del mio Paese.
«Cosa vogliono?», chiedo biascicando a un Fede piegato in una posa innaturale per riuscire a parlare con la tipa e, allo stesso tempo, non perdere il posto al bancone.
«Dice che lei ci da una tessera per avere lo sconto se le prendiamo da bere noi, così non fa la coda», risponde, con una foglia di menta sugli incisivi e un evidente sforzo di concentrazione per mettere in fila una frase così lunga senza incespicare.
Un imbecille mi versa mezzo cubalibre sulla t-shirt, lo mando affanculo in italiano ma il tipo è tedesco e manco se ne accorge.
«Ok», dico, «dov’è la tessera?».
Fede mi passa due carte verdastre, non le guardo nemmeno e ordino due mojito e due vodka-pesca-e-redbull, un drink veramente del cazzo. Ma me ne frego, ho pagato il mio mojito tre euro, e questo mi rende un uomo felice. Ripasso le tessere alle tizie, porgo loro le bevute che puzzano di chimico da un chilometro, sfoggio il miglior sorriso che le mie condizioni mi permettono e mi giro, dimenticandomi immediatamente della loro presenza. Amica cozza significa deterrente a provarci. E poi comincio a essere troppo sbronzo per relazionarmi a chiunque. Io e Fede brindiamo con i nostri mojito da tre euro e li buttiamo giù in meno di tre sorsi. Ormai siamo ufficialmente fradici, e qui dentro c’è davvero troppa gente.
«Dove cazzo sono le nostre giacche?».
Il mio coinquilino indica un gancio sotto il bancone dove ha appeso il mio cappotto e il suo parka. Tattico Fede.
«Dobbiamo spostarci», sentenzio convinto, mentre spingo via un cretino che sta cercando di infilarsi tra me e il mio compagno per raggiungere il bancone.
«Sei matto? Il bancone non si molla, bisogna difendere la postazione».
Ha ragione, questa è la regola. Specialmente in posti come La Lupe o El Tigre, dove l'aver raggiunto il bar significa di fatto aver vinto una guerra di spintoni e gomitate che qualche volta si risolve in modo violento, tramutandosi in una rissa da saloon alla Bud Spencer.
Il posto al bancone va difeso, cazzo, ma io ho bisogno delle Lucky, e il distributore è in fondo alla pista, che poi altro non è che uno spiazzo di quattro metri quadri ingombro di cinquanta persone che sudano vodka e Jack Daniel’s muovendosi a ritmo di qualche pessima canzone R’n’B o House commerciale.
Sto per commettere un gesto che è paragonabile solo al suicidio.
«Andiamo in pista», dico deciso.
«Sei matto», mi risponde Fede, aggrappandosi ancora più forte al bancone, mentre ordina due shot di vodka liscia. Sto per ingurgitare il mio bicchierino di superalcolico quando sento qualcuno chiamare il mio nome.
Mi giro, ed è Mario, il romano. E’ vestito con l’eleganza di sempre, ma l’occhio vitreo tradisce una serata impegnativa anche per lui. Le serate sono spesso impegnative, a Madrid. Parte un giro di shot in più, e poi un altro mojito. Stare in piedi comincia a essere un problema, ma almeno posso scroccare le Lucky di Mario, e non è cosa da poco. Mi chiede che ho fatto alla mano.
Merda, mi ero completamente dimenticato della mano. Attraverso gli occhi appannati da un tasso alcolico di minimo un due-punto-cinque abbondante, esamino il taglio che mi squarcia il palmo dall’indice fino alla linea della vita. E’ cicatrizzato, ora, ma tutto sporco di sangue intorno ai bordi. Non è una cosa grave, ma parecchio scenografica. Una sorta di stimmate, cazzo.
«Non ne ho idea», rispondo, e scoppio a ridere. Ride anche Mario. Fede invece è smarrito da qualche parte ingurgitato dalla marea umana che riempe il locale. Forse dovrei cercarlo, ma è così difficile staccarmi dal bancone e fidarmi delle gambe. Eppoi ora non ho più il problema delle sigarette.
Ordiniamo un altro giro di shot.
Un sole freddo illumina due trentatrè abbandonate sul bordo di un muretto in Plaza del Sol, mentre qualche relitto umano sotto forma di chili di carne svuotati da qualsiasi volontà e coscienza dall’abuso di stupefacenti e alcol cerca da qualche parte in fondo al fisico devastato la forza di non addormentarsi in terra aspettando la prima metro.
Buttati al suolo in posizioni scomposte, come se fossero caduti da qualche centinaio di metri d’altezza prima di schiantarsi sui piastrelloni granitici che circondano il kilometro cero, due punkabbestia dormono russando sonoramente abbracciati a un vecchio pastore tedesco con più pulci che peli.
Fede si ripara dal freddo con il cappuccio e il mento affondato nel bavero, io col mio cappotto lungo da persona perbene, decisamente fuori luogo a quest’ora del mattino e con queste occhiaie.
Il mio fedele compagno e coinquilino mi passa l’ultimo sorso di Mahou calda e sgasata. Sono tentato di rifiutare, poi accetto e mi ci faccio gli sciacqui tipo collutorio, gargarismi compresi, prima di sputarla in terra a due centimetri dai piedi del pischello in coma etilico a due passi da noi.
«Hai ancora del tabacco?», gli chiedo.
«Si, ma zero filtrini»
«Senza filtro, allora».
Fumiamo guardando l’alba riflettere sui vetri della stazione della metro di Sol, forse l’unico momento della giornata in cui questa cretinissima costruzione in vetro e acciaio sembra decente. Tio Pepe ha spento il neon, e Madrid dorme godendosi questa domenica mattina di fine novembre.
«Come va l’orecchio?», chiedo al mio amico.
«Quale orecchio?», domanda lui. Se ne è addirittura dimenticato. Zio Bacco opera dei miracoli, alle volte.
Guardo il fumo salire e disperdersi nell’aria gelida del mattino, i relitti umani che addobbano il pavimento attorno a noi, il parka sdrucito del mio amico e la macchia di cubalibre sul mio cappotto. Sorrido e lancio il mozzicone acceso poco più in là della lattina vuota di Mahou.
«Son le sette, chico, è ora di tornare a casa», dico scuotendo Fede, che intanto si è abbioccato col drummino acceso in bocca. «Che ne dici di un letto?».
Lui si sveglia, mi guarda perplesso, poi sorride. Ha l’orecchio gonfio, e forse anche un occhio nero, ma potrebbero essere occhiaie.
Domani, passata la sbronza, sarà dura combattere coi lividi, soprattutto per la puzza di sbirro che emanano. Ma, cazzo, mentre scendiamo le scale della metro per raggiungere finalmente quella sorta di centro sociale che chiamiamo casa, la polizia e i suoi manganelli fascisti sono lontani almeno una notte di bevute e risate.
Tra otto o nove ore ci sveglieremo in due letti microscopici in calle Juan Bravo. Ematomi per Fede e Stephanie isterica per me. Il mondo ci sputerà in faccia di nuovo la sua realtà di posto meravigliosamente complicato.
E, imprecando, ci daremo da fare per sistemare i casini.
Magari dopo una trentatrè ghiacciata.
Dario Bosio
THREE FACES