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Yemen Felix - Viaggio nello Yemen

Sapete qual è l’arma vincente per conquistare lo Yemen? Il sorriso. Basta un sorriso per aprire porte e cuori; per abbattere preconcetti e timori. E’ con il sorriso – e magari una caramellina – che lo straniero può assicurarsi la simpatia e la fiducia dei bambini. Pochi yemeniti parlano inglese, ma tutti conoscono alcune parole: “What’s your name? What’s your country?” ti chiedono grandi e piccini, non solo nella capitale ma anche nel più sperduto villaggio del deserto. Quando hai risposto a queste domande, scatta la terza frase, condita con un caldo sorriso e le braccia spalancate: “Welcome to Yemen!” Se durante questa breve conversazione hai mostrato cordialità e cortesia, la parola successiva è, probabilmente, “sura, sura” che significa “foto”. Dopo lo scatto, il rapporto si è fatto saldo. Seguirà lo scambio degli indirizzi e non di rado l’invito a bere insieme una tazza di tè. Ma il massimo della disponibilità lo trovi quando sei in difficoltà su un indirizzo da rintracciare, un negozietto da scovare, un numero di telefono da comporre. Non importa cosa stia facendo o in quale attività sia impegnata la persona a cui ti sei rivolto: farà di tutto perché il tuo desiderio sia appagato: ti accompagnerà a destinazione o si introdurrà fino nella cabina telefonica per formare il numero lei stessa.

Lo Yemen è un Paese con una fortissima personalità, non solo dal punto di vista storico o culturale, ma anche sotto l’aspetto umano. Intanto perché è un Paese allegro. Nonostante un’economia disastrata – mancano le industrie di un certo rilievo, solo il 3% del territorio è coltivabile, il petrolio chi si sta estraendo non incide ancora in maniera significativa sul PIL e i ventidue milioni di abitanti devono tirare avanti con un introito medio di due dollari al giorno – la povertà è vissuta in maniera dignitosa, quasi con uno spensierato senso di fatalismo. Del resto un Paese dove si spende il 30 % del reddito nazionale per masticare e biascicare il qat per ore e ore fino a farsi diventare la guancia gonfia come una palla da tennis, non può che essere catalogato come un Paese dove la realtà quotidiana è affrontata con una buona dose di tranquilla rassegnazione.

Nel primo pomeriggio, subito dopo il pranzo, sembra che il Paese si assopisca: ogni movimento dei suoi abitanti è rallentato, gli occhi degli uomini prendono una fissità lontana, l’energia e il dinamismo del mattino vengono rinviati al pomeriggio inoltrato o al giorno successivo. L’uso del qat è una pratica tipicamente yemenita, che non ha riscontro in nessun altro Paese arabo e può essere associato solo al betel usato da alcune popolazioni asiatiche.

Dal punto di vista scientifico la Catha Edulis, coltivata nella penisola arabica e in una zona dell’Africa Orientale, è un arbusto le cui foglie contengono sostanze che, ingerite, stimolano alcune attività cerebrali. A seconda del Paese, il qat può essere considerato una vera e propria droga – come negli Stati Uniti, dove il suo uso è proibito – oppure un semplice stimolante al quale tutti possono accedere. E si dice che in Yemen l’ 80% della popolazione (compresi donne e ragazzi) ne faccia uso quotidiano. Naturalmente, come accade per ogni sorta di abuso, anche il qat produce dannosi effetti collaterali, quali la rovina economica di chi non può farne a meno e il precoce decadimento fisico e psichico. Ma alcuni ricercatori hanno appurato che se un legislatore yemenita avesse il coraggio di proporre una legge che proibisse – o anche solo limitasse – l’uso del qat, ciò costituirebbe una ragione ampiamente sufficiente per scatenare una rivoluzione.

Poi ci sono le armi. O, per meglio dire, l’arma, perché, in realtà, non ne circolano molte nel Paese: la Polizia è discreta e, nella pratica quotidiana, disarmata. Ad eccezione della fascia settentrionale del Paese, al confine con l’Arabia Saudita, in giro non si vedono ostentazioni militaresche o prove di forza comuni in altre nazioni, per esempio, africane.

Però – quasi – ogni yemenita si alza al mattino e si infila nella cintola che gli avvolge i fianchi, un tozzo e ricurvo pugnale e non se lo toglie fino al momento di andare a letto. Niente violenza, per carità; nessuno lo usa per motivi impropri; è solo un ornamento tradizionale e decorativo, equivale alla cravatta che un occidentale si annoda ogni mattina, assicurano gli yemeniti. Resta comunque il fatto che pur sempre di un’arma si tratta e nella capitale Sana’a ci sono centinaia di artigiani che si guadagnano da vivere riparando e affilando pugnali. E al turista fa un certo effetto vedere per strada un giovanotto che indossa la poco marziale futa, una sorta di gonnellino che lascia scoperti stinchi e piedi inciabattati, però alla vita ostenta la micidiale jambiyya. Anche se, oggi, il manico arabescato che sporge dalla fondina serve soprattutto per appenderci il sacchetto di plastica che contiene la dose quotidiana di qat.

Infine ci sono le donne. Un argomento questo che anche solo a sfiorarlo superficialmente potrebbe impegnare montagne di parole. Perché il ruolo della donna nella società yemenita è assai peculiare. Nel settore pubblico la sua presenza è marginale, quasi inesistente; e questo lo si nota in ogni aspetto della vita quotidiana. A differenza di altri Paesi arabi, per fare un esempio, dove l’abbigliamento femminile – come quello maschile – è variegato, multiforme e variopinto, in Yemen non c’è scelta: ogni donna indossa una tunica, rigorosamente nera, che la copre dalla testa ai piedi, lasciando solo una stretta fessura per gli occhi. Le donne che possono tenere il volto scoperto sono le pochissime che frequentano scuole e ospedali. Per il resto, la chiusura è totale. La donna non ha accesso al mondo del lavoro né partecipa in alcun modo alla vita pubblica. E salta prepotente agli occhi, ecco un altro esempio, l’immagine dei mercati settimanali che, specialmente nei villaggi o nelle piccole città, costituiscono l’occasione per socializzare o per approvvigionarsi di cibo e altri prodotti per la casa, totalmente privi dell’elemento femminile. Nessuna che faccia acquisti, nessuna che venda qualcosa. Se si chiede a un uomo cosa ne pensi di questa situazione, raramente si ascoltano voci di dissenso. Il concetto comune è che la “bellezza” di una donna non può e non deve essere condivisa con tutti, ma è riservata solo al suo uomo (che peraltro non sceglie).

L’altro concetto è che se è vero che all’esterno la donna non può mostrarsi, fra le mura della casa è lei la vera padrona, colei che si veste – o si sveste – a proprio gradimento, che dispone dell’educazione dei figli, che presiede al buon andamento familiare. Tutto vero. Però, al di là di qualsiasi giudizio di carattere etico, lascia non poco increduli il pensiero che sia la totalità delle donne a condividere e accettare queste regole che traggono origine non tanto dalla religione quanto da fattori culturali e tradizionali.

Per finire, un invito mirato a sfatare un pregiudizio radicato a livello globale e francamente non giustificato. Non è corretto, infatti, etichettare il Paese come un covo di banditi e rapitori; un Paese dove ogni straniero è guardato con cupidigia pensando al riscatto che se ne potrebbe ricavare. Nessuno vuol negare che rapimenti ne sono stati compiuti e, certo, altri se ne organizzeranno; ma è importante rendersi conto che si tratta di un numero infinitesimale di delinquenti che, con le loro azioni eclatanti, gettano discredito su un intero Paese composto, nella stragrande maggioranza, di persone ospitali e cortesi che fanno di tutto per mettere il visitatore a proprio agio. E spesso ci riescono, grazie al loro calore e spontanea disponibilità.

Riccardo Gatteschi

THREE FACES

Photo credits @ Helene Kramarcsik

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