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Torino Schizofren(et)ica - Fuorisede a Torino

3 gennaio 1889, piazza Carlo Alberto, Torino

Nietzsche ha la sua principale crisi di follia in pubblico: è di fronte ad un cavallo adibito al traino di una carrozza, fustigato a sangue dal cocchiere. Il filosofo abbraccia l'animale e inizia a piangere, per poi buttarsi a terra urlando in preda a spasmi e a discorsi scollegati, tra cui l’emblematica affermazione “Dio è morto”.

23 settembre 2013, Murazzi sul Po, Torino

Anche il mio Dio è morto.

Lo dice perlopiù Guccini, nell’omonima canzone:

perchè è venuto ormai il momento di negare

tutto ciò che è falsità,

le fedi fatte di abitudine e paura,

una politica che è solo far carriera,

il perbenismo interessato,

la dignità fatta di vuoto,

l'ipocrisia di chi sta sempre

con la ragione e mai col torto,

e un dio che è morto”.

Sono seduta da sola su di una panchina, mi guardo intorno e realizzo di non sapere dove realmente io sia. Vedo il mio ordine cosmico che frammentato galleggia nell’acqua del Po.

C’è casa mia, con all’interno la mia famiglia, ci sono i miei amici che si tengono stretti ad una bottiglia di vetro, c’è la mia certezza, la mia abitudine, c’è lo specchio in cui mi sono guardata ogni mattina per vent’anni prima di iniziare una nuova giornata.

Torino assiste a questo spettacolo qualunquista e standardizzato e ghigna tra i contorni stabili delle sue montagne che la incorniciano ed al contempo la proteggono.

Sì, “il cielo su Torino sembra ridere al [mio] fianco”.

E’ da qui che ri-inizio, è anche qui che Dio è morto.

La cosa che un po’ mi limita nell’emancipazione delle mie emozioni è la consapevolezza che ormai trasferirsi altrove al fine di studiare sia un evento proprio di ogni società, uno di quei fenomeni che si è prepotentemente trasformato in cliché.

Forse è proprio qui il primo passo per la redenzione, forse dovrei semplicemente scardinarmi da questo strutturalismo prototipico e usare gli occhi degli altri solo per guardarmi da lontano.

Ho finalmente una tela vergine, ho il mio Eden lontano da tutto ciò che fino a ieri ho rappresentato. Vorrei che questa fosse la mia rivincita, il labirinto geometrico nei quali angoli potrò essere chiunque, senza passato, vagando in una danza sincronica e scoordinata. Voglio che Torino sia la mia incubatrice, l’utero materno che mi conservi durante tutto il tempo necessario.

Necessario per cosa? In realtà non so neanche cosa io stia cercando. So che non sto più fuggendo, perché sono dell’idea che, paradossalmente, scappare sia sempre un regredire.

So che Dio è morto.

6 dicembre 2013, Lungo Dora Firenze, Torino

Ringrazio il semplice e ortogonale schema urbanistico di questa città perché il fascio di rette parallele sembra costruito di proposito al fine di ricordarmi che orientarsi è possibile, che trovarsi è possibile.

Questo stampo a scacchiera non deriva, come molti erroneamente credono e mi hanno suggerito, dai famosi decumano e cardo romani, bensì da una studiata strategia politica seicentesca. Il che è esplicativo: perdersi nonostante le strategie è un atto di immensa elevazione.

Ringrazio la Mole, che si erige a bussola dei miei viaggi e che mi insegna a camminare e a guardare in alto. È guardando in alto che adoro perdermi, lasciando il libero arbitrio alle vie che assomigliandosi creano caos in un ordine strutturale. Prima di vivere qui, percorrevo chilometri guardandomi i piedi, per non scivolare. A Torino ho imparato che è un nuovo mondo, se il naso ti fa da direttrice.

Ringrazio il Duomo, che mi ha portata a capire che se una cosa è preziosa non ha motivo di essere nascosta – e qui provoco, perché la sindone è al Duomo ma ancora non mi è stata mostrata –.

Qui ogni cosa ha un perché, ed è per questo che ho iniziato a domandarmi meccanicamente l’origine di ogni cosa, un po’ come lo è stato con i portici sparsi per tutta Torino: adesso infatti so che sono stati costruiti per volontà di Carlo Emanuele I.

Me lo immagino: «Vorrei poter passeggiare per Torino nonostante la pioggia perpetua, senza dovermi bagnare».

Torino ti attira verso di sé, è un concentrato di possibilità, il punto in cui convergono gli opposti, i complementari, i dispersi, i pellegrini e i convertiti.

Sono soltanto tre mesi che vivo qui eppure, ogni volta che mi allontano, sento di lasciare un pezzo di me. Questo è il posto giusto. Sarà che il mio paese d’origine sembra l’antitesi di tutto ciò, sarà che a me la staticità e la quiete non sono mai piaciute, ma sono quasi del tutto convinta che qui si trovi ogni sfaccettatura del mio essere. Giorno dopo giorno ho saputo ricercare un pezzo di città che potesse accogliermi a seconda dei miei sbalzi d’umore. Solo Torino sa stare così tanto tempo con me senza impazzire e senza annoiarmi mai.

Torino, e ovviamente coloro che la abitano.

Torinese falso e cortese” rimbomba spesso nel mio cervello, anche perché è stata questa la carta d’identità con cui mi sono stati presentati i suoi abitanti.

Dire di non averne incontrati di questo tipo significherebbe mentire. C’è però da dire che Torino non è dei torinesi, i quali vi sono nati senza poter decidere. Torino è di chi l’ha scelta, di chi la vive, di chi la sente e di chi la impersona.

Torino è uno sguardo che ti abbraccia,

è eterogenea se sai cercare,

è il Baloone del sabato mattina - una finestra multietnica che si affaccia sul diverso,

è la neve che scende per scaldarti,

è il sole che non è vero che non la illumina mai,

perché quando lo fa lo senti ed è come un occhio introspettivo che ti guarda e ti porta dentro di te,

Torino è prezzi contenuti,

è la ricerca del mare –e lo cerchi sul Po, guardandoti i piedi sul ciglio del fiume, perché se escludi l’altra sponda, il Po è mare davvero, con un po’ di fantasia.

Torino è una parentesi di Liberty,

è un frullato d’arte.

Torino è qualcosa di interiore che nasce da qualcosa di esteriore.

Come potrei non concordare con la teoria sul “sacrificio di Fondazione” ipotizzata dallo storico rumeno Eliade?

“Un universo, per poter nascere, deve formarsi grazie ad un sacrificio fondante di una vita che ancora non ha espresso le proprie potenzialità”.

Trasferirmi a Torino è stato il simbolico sacrificio della vita che possedevo prima. Da qui si è generato il mio universo e adesso lo impugno con entrambe le mani. Questa città ne è il centro.

Torino è un mosaico di piazze e di chiese, mostre en plein air di ciò che è stato e che tutt’ora persiste.

Hai bisogno di sentirti al sicuro? C’è Piazza Castello che ti copre come fosse un velo di seta – per questo io lì soffoco spesso –.

Sei alla ricerca di un non luogo? Cammina e assopisciti a Superga, dove le persone smettono di essere ciò che sono oppure al contrario, si autodefiniscono.

I tre quarti dei posti di Torino, comunque, non possono essere intrappolati su di un foglio, perché il senso più puro è la vista e dunque per celebrarla hai bisogno di un’osservazione partecipante.

Vista che cala se ti addentri nelle viscere sotterranee dalle mille sfaccettature, “centro della Terra” che tante volte ha salvato e dato rifugio, nella storia, agli abitanti del “piano di sopra”, cittadini o massoni. A volte stregoni.

Lì sotto vi è la parte più ombrosa, il fulcro più nero che in fondo è presente in ognuno di noi.

Amo Torino e lo faccio follemente, in quanto mistagogo della mia introspezione. È qui che ho compreso che la ricerca ostentata dell’equilibrio è possibile solo attraverso di sé. Il mondo ne è soltanto uno specchio; in fondo io qui posso essere chiunque, senza dovermi preoccupare di nient’altro se non di cadere nell’errore di porre ai miei polsi delle catene.

Qui io mi vedo per sostegno degli angoli meno comuni, con gli odori più aspri e leggiadri e soprattutto grazie agli sguardi di chi mi osserva, di rado, curioso.

Qui è facile strappare sorrisi, risate, persino gli abbracci. L’unica cosa che ho capito di non poter strappare sono le radici che mi ricordano da dove vengo, anche perché è impossibile mettere le radici alle inquietudini già maturate. E io sono inquieta perché so da dove vengo, ma mi è ignoto dove io stia andando. Prima di essere Torino, sono Sanremo, sono il profumo della brezza marina e del vento. Sono sabbia che arde al sole e di tutto ciò sono al corrente poiché Torino è stata e continua ad essere un filtro autocelebrativo ed autoconfutativo.

To be continued...

Martina Calista

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