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Impressioni da Joburg - Emigrato in Sudafrica

In una settimana a Joburg capisci molte cose, anche se di sicuro non capisci la città.

La prima cosa è che sei bianco, che tu lo voglia o no.

Che non è necessariamente un male, ma sicuramente mai un bene.

Capisci poi che esistono molte sfumature di nero, anche se tu non le cogli.

E che il problema non è il colore, ma l’etnia. Un nigeriano, ad esempio, è come un bianco. Insomma, il colore semplifica il problema, ma ciò che conta è da dove provieni.

Tutto è molto codificato, e ci si aspetta che tu ti comporti da ciò che sei.

Essere troppo naturali, a volte, crea imbarazzo.

La città è divisa in due parti, quelle dove puoi andare e quelle dove non puoi.

Ma nessuno si è degnato di disegnare una linea rossa per terra con il divieto, e nemmeno di spiegare questa sottigliezza al gps.

Quindi, quando sbagli, e a volte sbagli, è meglio fare dietrofront. Di corsa.

Il ritmo di vita e di lavoro è lentissimo.

Ogni conversazione inizia sempre e rigorosamente con un «buongiorno, come stai? Bene, grazie e tu? Abbastanza bene, oggi. Mi fa molto piacere…», anche per chiedere un’informazione, anche se è la terza volta che parli con la stessa persona negli ultimi 5 minuti. Anche se non va bene niente.

Nelle squadre di lavoro degli operai c’è sempre uno grasso che non fa nulla e guarda quelli magri che lavorano. E la cosa funziona, quando il gruppo è numeroso.

Quando invece sono in due, funziona meno. E quando quello magro si assenta, resti lì perplesso a guardare quello grasso, e ti chiedi perchè lo stai pagando per guardarti perplesso…

Ah. Importantissimo. La divisa da lavoro. Le regole sono due: la prima è non rispettare alcuna norma di sicurezza; la seconda è che almeno uno della squadra, sotto la tuta da lavoro, deve indossare le scarpe di vernice nere lucide.

E tu, con le tue Tomys Takkes, continui a passare per l’inadeguato.

Qui i saluti sono tutti codificati.

Se incontri un ragazzo, devi chiamarlo baba, fratello.

Una ragazza, sissi, sorella.

Una signora grossa e imponente, mama.

E qui nasce il problema.

Mama è un segno di rispetto, ma se tu incontri una 40enne un po' in carne, non ti viene naturale darle della Mama. Insomma, è difficile dire a una “ciao, signora grassa e imponente”. Ma non puoi nemmeno chiamarla “Sorella”, sembrerebbe di essere a Quarto a urlarsi “bella zia”. Cosi, per ora ho risolto il problema non rivolgendo la parola a un’intera generazione di donne.

Alla fine, comunque vada, loro ti chiameranno Sir, a te gireranno i coglioni, penserai a Sir Bis e te la farai passare.

Qui non esistono orari. A un appuntamento delle 9 per lavoro si può anche arrivare alle 11 ma anche alle 7, se è sabato e si vuole finire presto. L’importante è non avvisare.

E la gente si inventa dei nomi per parlare con te. Ieri sono arrivati ben quattro Washington. Numerati dal One al Four.

Ovviamente One era quello grasso che non faceva una mazza, e Four quello piccolino che lavorava per Quattro.

Qui non si capisce mai quanto valgano I soldi, che sono colorati e pieni di animali.

Tutto quello che sai è che chiunque ti incontra vuole una mancia, a volte meritatissima a volte inspiegabile. Ma di sicuro ti faranno capire se è sufficiente o meno.

Ah. Qui non si vedono bianchi che lavorano. Devono essere chiusi in uffici importanti, ma non si vedono mai fare nulla. E alle 16 sono al bar a mangiare. Se potessi, li odierei anche io, talvolta.

Qui si mangia da dio. Ma è tutto talmente grasso, che anche fare la spesa risulta complesso.

Essere grassi merita rispetto, e la gente si impegna a esserlo. Bianchi, neri, Verdi, arancioni, non conta. Come un tempo in Italia, se sei lardoso sei benestante.

I ristoranti costano pochissimo, I supermercati tantissimo.

E così tutti mangiano fuori delle cose meravigliose, ma che il mio fegato non è in grado di reggere. Sono due giorni che pranziamo a yogurt e frutta.

Però bisogna ammettere che il 90% delle persone che incontri, non importa il colore della pelle, ti regalerà un sorriso a mille denti.

Che tutti sono gentili, allegri, disponibili e presi bene.

Che le giornate passano senza tutto il carico di nervosismo che conosciamo, siamo nel verde, la gente è serena e da grande valore alle piccole cose. E alla vita, in generale.

Certo, puoi incontrare quello che ti guarda strano.

Ma in fondo, lo noti poco, pieno della gioia di tutti gli altri che hai intorno.

Comunque, Cape Town – dove vivo – non è cosi.

Questo è un posto da matti, reggo ancora qualche giorno e poi via.

Però, in qualche suo strano modo, è bellissimo…

Tomaso Aroldi THREE FACES

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