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Gli schizofrenici non sono mai da soli - Fuorisede a Torino, atto II

15 marzo 2014, Murazzi sul Po, Torino Dov’è il cavallo adibito al traino della carrozza fustigato a sangue dal cocchiere, che voglio abbracciarlo e piangere con lui? Nessuno lo vede, ma io dondolo. Mi dondolano le ossa, i polmoni, lo stomaco, il cervello. Non lo vede nessuno, ma io dondolo. Me ne accorgo quando gioco a fare l'equilibrista sulle rientranze del suolo sul Po, mentre alle spalle ho la città e di fianco ho la città e davanti ho la città e sotto ho la città e sopra ho la città. Non pensavo che Torino mi avrebbe stufata. Non pensavo che per l'ennesima volta, quello che credevo il posto giusto mi sarebbe stato stretto. Come quando indosso un vestito che non mi appartiene, di raso, un tubino ossessivo che preme sul mio seno, e sulla pancia, e sul sedere e trattiene le mie ossa che spaventate smettono di dondolare. Mi sono stufata dei rapporti sincretici. Era la parte che più preferivo, perché credevo fosse un ottimo deterrente per la mia paranoia. Non dover promettere, non dovermi sedere sulle mani di nessuno mi pareva la chiave di lettura perfetta per un mondo che vorrei fosse soltanto il mio. Mi piacerebbe sapere perché da ogni cosa, dopo lassi di tempo più o meno dilatati, ne scaturisce l'insoddisfazione, la mia insoddisfazione, direttamente proporzionale all'irrequietezza che mi impregna il corpo intero, come vernice, come fossi un anfibio e la pelle fosse il mio unico apparato respiratorio. Quando sono tranquilla divento isterica in silenzio, in modo latente, perché non è possibile che qualcosa mi possa acquietare. E da quel momento è un effetto domino; prendo le scarpe, abbandono la borsa ricolma della mia storia e mi allontano di fretta, sotto ad archi gotici che con l'ombra diventano croci bombate che pesto coi piedi. I colori tutt'intorno si abbracciano e scivolano astratti alle mie spalle, andando a cadere sui miei castelli di carta che crollano ed io ne percepisco appena il rumore. Poi mi fermo, in un punto atemporale, astorico ed io non ci sono, mi cerco e quello che vedo è una luce bianca, fioca. Il sapore è quello dell'inizio e della solitudine. Nistagmo mi guarda, di fronte abbiamo una tela che sembra una finestra sulle nostre intenzioni strozzate. «Dis:egna la tua vita», lo dice con la S legata all'apice della sua lingua. Io neanche ci penso, mi fermo a guardare e col grigio incido “Sin(x)=2π”. Nella mia mente piroetta una linea ondulata che plana su di un piano cartesiano, tagliandolo sull'asse di x. È sopra e poi è sotto e poi è sopra e poi è sotto e si muove ed è curve e ho paura e si allinea e mi vede e mi punta e si avvicina e mi avvolge non farlo che non è il momento sto soffocando non devi toccarmi. Il paradosso sta nel fatto che io non sia matematica e che la ratio non sia propria delle mie ambizioni. Straparlo e Nistagmo non mi sta dietro. Anguria non mi sta dietro e Purezza neanche. Calma manco mi ascolta. E io se mi guardo non mi riconosco, come accade ogni volta, quando in punta di piedi indietreggio dalla linea del benessere, alla ricerca di qualcosa di nuovo, come se prima l'acquitrino tiepido della mia esistenza si fosse trasformato in palude ed infine in petrolio. Non so se sia il cambiamento il mio nettare, o se io tenda inconsciamente alla precarietà, al malessere. È che odio stare ferma. È che sono superba. E anche questo mi annoia ma non riesco a redimermi. Ho imparato a lasciare i libri a metà e questo mi ha fatto sentire potente, almeno per un po'. Adesso mi annoia. Alla fine poi, la prima cosa che lascio a metà sono io. Mi impongo un traguardo e mi fermo trenta centimetri prima di pestarlo col piede, mi prometto di iniziare domani e alla fine, la sera, poco prima che il giorno finisca, inizio all'istante, e dentro lo sento che nessuno lo vede, ma io dondolo. Dondolo e Torino mi supporta, contorcendosi al mio fianco. 18 aprile 2014, dentro di me, Torino Questa città è schizofrenica e io l’ho ingoiata così tanto, l’ho assimilata così tanto, che sono diventata come lei: caotica, ordinata, multietnica, forse un po’ arida, pluriforme, spasmodica. Ha ragione Pessoa, l’individuo è lui stesso l’intera società, l’uomo è eteronimo per definizione. Mi sento così, sono tanti e non sono nessuno. Profumo di una Torino ottocentesca impregnata di smog contemporaneo, ho gli organi distribuiti come fossero a scacchiera e il Po, la Dora, la Stura e il Sangone sono i miei vasi sanguigni, che a volte sono in piena ed altre hanno sete. Inquinate quasi sempre. I venticinque parchi sono il buono che ancora c’è in me, l’archetipo della mia generazione. Poi ci sono i ponti, che invece mi tengono stretta dai polsi e dalle caviglie. Torino è schizofrenica nella sua frenesia ed io sono schizofrenica nella mia inquietudine. “Gli schizofrenici non sono mai da soli”. Eppure io ho un gran bisogno di sentirmi da sola e dispersa di nuovo. L’incertezza è il motore della mia autonomia. No, la tua autonomia è la città in cui hai deciso di vivere. Non iniziare. E invece inizio e ti ho detto di lasciarmi in pace che bei capelli che hai ma dove stai guardando? Perché non ti fermi a guardare? Ma ho già guardato tante volte e sento la voce di strane personcine che mi dice che adesso posso andare e che posso andare ovunque perché io sono l’ovunque e però se fuggo di nuovo che cosa ho ottenuto? Stai calma sei lì e sei là e non è il momento e non lo sarà mai se l’ottica è quella di andare senza voler poi tornare. Un anno fa sarei fuggita. Ho sempre fatto così: se un anno fa avessi percepito l’angoscia e l’irrequietezza lì ad inzupparmi le dita dei piedi, pronte a impregnarmi l’anima intera, mi sarei rinchiusa dentro ad un treno, wormhole atemporale e filo precario tra due estremi, e avrei vagato tra i meandri dei miei pensieri, che perseveranti mi avrebbero inchiodata alla sedia legnosa della mia esistenza. Avrei poi guardato il finestrino lurido e avrei visto i colori della mia gabbia fondersi e precipitare caotici alle mie spalle. Un anno fa questo comportamento sarebbe stato inevitabile, in quanto si sarebbe eretto in me il desiderio di puntare un dito in mezzo al quadro surrealistico che impersonavo in quel momento e fermare. Fermare tutto. Adesso il quadro surrealistico ce l’ho di fronte, tra noi due vi è un simposio di idee. Non fuggo, non mi nascondo. Piuttosto mi paralizzo e aspetto di germogliare. Questo è ciò che mi ha mostrato Torino: l’idea di essere soli è un’utopia ed al contempo è la realtà più corroborata esistente. E io con lei sono sola e lei con me è sola e siamo sole insieme, nel caos di un prisma le cui punte, ognuna differente, generano un insieme. “Osservate con quanta previdenza la natura, madre del genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. […] La vita umana non è altro che un gioco della Follia.” Inutile dire che alla lettura di queste parole mi sono più volte domandata se Torino non avesse contribuito all’ispirazione di Erasmo da Rotterdam nell’elaborare questo celebre saggio. È qui che lui si è laureato, è qui che lui ha vissuto. Ed è qui che Nietzsche è impazzito. Per questo, peccando probabilmente di presunzione, ho compreso che è Torino il mio personale Elogio della follia, perché è lei che mi ha mostrato la moltitudine di personalità che permeano il nostro esistere, è lei che mi ha presa per mano e mi ha lasciato la libertà di fuggire in un viaggio dentro di me, alla ricerca di una possibile conciliazione, senza per questo dover raggiungere il delirio. Torino è un po’ i pezzi di tutti noi. Martina Calista THREE FACES

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