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Uno sguardo sul Ciad - Viaggio in Ciad

Si dice Ciad e il pensiero corre a uno dei molti tasselli del grande mosaico di Paesi che formano il continente africano; un tassello incastonato proprio nel suo centro e nel suo cuore, come una gemma che impreziosisce il gioiello. Ma il mare è lontano quasi duemila chilometri, il clima è sfavorevole per molti mesi dell’anno e se non fosse per il lago omonimo – un grande specchio d’acqua che però si sta prosciugando con preoccupante rapidità – e un paio di fiumi che attraversano il suo territorio centro-meridionale, si potrebbe paragonarlo – più che a una gemma – a un umile mattone simile ai milioni di altri con i quali si tirano sù le pareti delle modeste capanne che danno asilo a quasi dieci milioni (cioè la stragrande maggioranza) di abitanti. La sua posizione geografica, al confine con il Sahara libico a nord e in piena zona tropicale a sud, ne fa un Paese scarsamente abitato nella parte desertica e arida, con una maggiore, seppur contenuta, densità nel territorio a sud della capitale N’Jamena dove la maggior parte della popolazione sopravvive grazie ad arcaiche pratiche agricole. Un Paese che, nel pur deprimente scenario dell’Africa Centrale, mostra alcuni squarci di indigenza e di povertà tali da lasciare il visitatore sconcertato e incredulo. Possibile, viene da domandarsi, che nel XXI secolo, in un periodo in cui le distanze non sono più un ostacolo, in cui l’informazione e la comunicazione possono estendersi capillarmente su tutto il globo, esistano ancora territori nei quali il progresso tecnologico non si è affacciato? Dove la scuola costituisce ancora un privilegio per pochi fortunati? Dove le scoperte in campo medico e sanitario sono quasi del tutto sconosciute o inaccessibili? In Ciad – un territorio di oltre un milione e duecentomila chilometri quadrati, circa quattro volte l’estensione dell’Italia – non esiste una ferrovia, le strade sono piste nate spontaneamente dov’è più agevole passare e percorribili (tranne per poche centinaia di chilometri di asfalto) soltanto quando la stagione lo permette. In Ciad le scuole e gli ospedali di matrice statale sono rari e, nelle campagne, quasi inesistenti. In Ciad manca una compagnia aerea internazionale, non esiste un canale televisivo che irradi i suoi programmi oltre il perimetro della capitale, non c’è una stazione radio pubblica degna di questo nome. In Ciad l’industria è inesistente se si escludono rari opifici per la produzione di birra e di sigarette. Non si ha notizia di una sola fabbrica tessile, per esempio, oppure della lavorazione del legno o anche della trasformazione dei prodotti agricoli. La corrente elettrica è presente (per qualche ora al giorno) nelle tre o quattro maggiori città ma è sconosciuta al 90% della popolazione. Uno stesso discorso può essere fatto per l’acqua potabile, il cui massimo della modernità è costituito da un pozzo dal quale si fa salire l’acqua con una pompa azionata a mano; altrimenti è il solito secchio tirato sù con la corda. L’attività principale nei villaggi, dopo la lavorazione dei campi – spesso con una zappetta il cui corto manico costringe a stare sempre chinati – è la molitura delle principali derrate alimentari – il sorgo, il miglio, il mais, le arachidi –; operazione eseguita dalle donne che pestano con un bastone il cereale dentro un mastello di legno. Nei villaggi più modernizzati esiste un mulino azionato da un gruppo elettrogeno il cui monotono rumore contrasta e stride con l’infinito silenzio (rotto solo dalle grida dei bambini impegnati in giochi senza giocattoli) che pervade i gruppi di capanne sparsi all’ombra dei maestosi baobab o mango o manioca o il karitè. Ma la lista di quello che in Ciad non esiste potrebbe continuare a lungo: niente attività editoriali, non si stampa nemmeno un giornale quotidiano; niente cinematografia se non quella privata, non si conosce il turismo né si sa cosa significhino iniziative legate a promuovere queste imprese. Scarse le attività sportive, a meno che non si voglia considerare sport due gruppi di ragazzini in una radura affannarsi dietro a un pallone che, nel migliore dei casi, era pallone dieci anni fa e adesso è un oggetto informe, vagamente rotondo, al quale manca la caratteristica più importante: quella di rimbalzare. Se si esclude la musica e la danza, non si ha notizia di altre attività artistiche e anche il settore dell’artigianato è del tutto carente. In questo quadro desolatamente negativo c’è posto – come per contrappasso – per una grande ricchezza che possiede il Ciad. Un vero e proprio tesoro scoperto di recente che potrebbe cambiare radicalmente il volto di questo Paese che, fino dal giorno dell’indipendenza dalla Francia nel 1960, oscilla costantemente fra le cinque-dieci nazioni più povere della Terra. Questo tesoro si chiama petrolio, l’oro nero, quel liquido prezioso del quale le grandi potenze mondiali sono costantemente assetate. C’è solo un particolare a inficiare il roseo futuro che si potrebbe delineare per questo Paese: il petrolio del Ciad non è dei ciadiani. Fino dall’inizio delle ricerche, nella seconda metà degli Anni ’90, si sono insediate alcune compagnie anglo-americane (solo in anni successivi sono comparsi anche imprenditori cinesi), che hanno fatto il bello e il cattivo tempo, a loro piacimento. Dopo aver stipulato vantaggiosi contratti con il governo centrale, hanno preso possesso del territorio – nella provincia del Logone orientale che ha il suo capoluogo in Doba – distribuendo esigui risarcimenti agli agricoltori per estrometterli dalla loro terra, iniziando a pompare l’oro nero e convogliarlo in un oleodotto che ha il suo punto d’arrivo nel porto di Kribi in Camerun. Senza voler entrare nel merito delle ripercussioni a carattere nazionale che questo sfruttamento comporta (corruzione, faide intestine, arricchimento illecito di poche persone…. ), preme sottolineare le conseguenze negative che questa attività fa ricadere sulla popolazione che vive al centro o nelle immediate vicinanze della zona di estrazione. Il contrasto si fa ancora più stridente se si mettono a confronto il territorio occupato da una compagnia petrolifera americana e le zone dove tuttora risiedono i nativi. Da una parte si è riprodotta una porzione di Texas, con le pompe di estrazione e di smistamento che splendono – moderne e ben curate - al centro di ampi piazzali accuratamente disboscati e ripuliti di ogni asperità, con strade asfaltate che si intersecano sul territorio, con linee elettriche di grande potenza, con due raffinerie in grado di fornire una produzione difficilmente quantificabile per l’impossibilità di reperire dati ufficiali, ma certamente alta. Una centrale direttiva definita dai pochissimi che l’hanno potuta visitare, come ultramoderna e dotata dei più recenti accorgimenti tecnologici; un villaggio dove vivono i tecnici americani di cui si favoleggia ogni sorta di delizie di provenienza occidentale: aria condizionata, piscine, campi da tennis o da basket, acqua – calda e fredda – che scorre in abbondanza nelle condutture, auto e camion esageratamente grandi e potenti che scorrazzano avanti e indietro. Il territorio “occupato” è provvisto anche di un piccolo aeroporto dal quale partono e arrivano aerei privati a uso dei dipendenti della compagnia. E tutt’intorno a questo Eden in sedicesimo ansima, zoppica, fatica e soffre lo stesso Ciad di sempre e di ovunque: strade che sono a turno piste polverose nella stagione arida o trappole micidiali con voragini di cui non si conosce la profondità nel periodo delle piogge, casupole con il tetto di paglia, totale assenza di energia elettrica e di acqua corrente, ciclisti che arrancano sotto il sole di fuoco, mentre i pochi che hanno la fortuna di disporre di una piccola motocicletta, si riforniscono al raro distributore che vende la benzina in bottiglie di vetro da un litro al prezzo di un euro (poco meno della cifra che mediamente un ciadiano guadagna in un giorno)! Alcuni anni fa la situazione era diversa e migliore rispetto a oggi perché molti indizi lasciavano prevedere buone prospettive nei confronti della popolazione direttamente interessata all’estrazione del petrolio. Prima di tutto l’assunzione di qualche migliaio di operai ciadiani permetteva di immaginare che almeno un certo numero di famiglie potessero fare affidamento su uno stipendio sicuro e decoroso. In secondo luogo sembrava che le compagnie petrolifere avessero intenzione di dedicare una particolare attenzione al tentativo di sollevare le deplorevoli condizioni degli abitanti. E’ l’ex vescovo della diocesi cattolica di Doba, il comboniano Michele Russo, che rievoca la situazione di quegli anni: “Dopo il 2002, nel sud del Paese abbiamo conosciuto una relativa calma: l’inizio dei lavori di installazione delle strutture per lo sfruttamento del petrolio ha portato un certo ottimismo nelle nostre terre. I nuovi mezzi di comunicazione sono venuti alla luce; i telefoni cellulari hanno preso campo, la strada asfaltata è giunta dalla capitale fino a Moundou. Alcune scuole, alcuni apparati sanitari hanno fatto timidamente la loro comparsa; insomma, si è cominciato a vedere qualche segno tangibile dei frutti del nostro sottosuolo.” Ma negli ultimi anni la situazione è peggiorata. Nel 2006 la capitale N’Jamena è stata teatro di guerriglia con morti e feriti. Nel 2008 si sono registrati scontri con altre vittime. Infine nel 2013 si è registrato un tentativo di colpo di stato per detronizzare l’attuale presidente, il generale Idriss Deby, al potere dal 1990. Quel che sta avvenendo in Ciad è già accaduto in altri Paesi africani, come in Congo o in Angola, in Costa d’Avorio o in Kenia. Dovunque gli stessi problemi, le stesse situazioni di violenza e di morte, la stessa impossibilità di prendere in mano le redini del loro destino e di contribuire allo sviluppo a causa dell’avidità dei Paesi ricchi che approfittano della debolezza e delle divisioni interne per continuare lo sfruttamento. Perché, in ultima analisi, fino a oggi l’estrazione del petrolio, lungi dal portare pace e benessere ai nativi, ha contribuito, al contrario, ad acuire le divisioni, ad accrescere l’odio fra le parti, a creare fonti di violenza e di prevaricazione. Le ragioni di questo stato di cose sono facilmente intuibili: lo stipendio di quelle poche migliaia di operai appare come un Eldorado per molte donne ciadiane e le conseguenze sono inevitabili: prostituzione alta e quindi anche il numero dei malati di Aids è in continua crescita; famiglie che si dividono lasciando spesso i figli abbandonati a loro stessi. Un altro problema è costituito dagli ex agricoltori, privati della loro terra, che spesso finiscono in fretta il denaro ricevuto come risarcimento e trovano enormi difficoltà a ricominciare una vita lavorativa. Del resto il Ciad attuale non si è formato in maniera storicamente e culturalmente omogenea ma è stato creato arbitrariamente dai colonizzatori francesi che lo consideravano come una sorta di cuscinetto fra i loro possedimenti nell’Africa occidentale e quelli della zona tropicale. Così sono nate frontiere artificiali che hanno costretto alla convivenza popolazioni eterogenee e culturalmente lontane. Basti pensare al nord, arabo e musulmano, e al sud con varie etnie autoctone di religione animista con una cristianizzazione ben radicata. Diversità, queste, fonte di interminabili incomprensioni che spesso sfociano in conflitti armati se non in vere e proprie guerre civili dal momento che non si è mai registrata una vera e lunga pace anche prima dell’arrivo dei colonizzatori. Certo, i francesi hanno accentuato le diversità tenendo comportamenti diversi a seconda delle zone dove si trovavano ad operare: se al nord hanno mantenuto l’ordine sociale precedente, al sud si è proceduto a radicali e arbitrarie trasformazioni, con la creazione di nuove amministrazioni cantonali, con lo spostamento di interi villaggi senza rispetto per le tradizioni e i costumi locali. Tutto questo ha portato come conseguenza, al termine della colonizzazione, a profondi turbamenti e insanabili contrasti fra le varie etnie, mettendo oltretutto in evidenza l’incapacità e la debolezza dei vari governi che si sono avvicendati alla guida del Paese. Né la scoperta del petrolio ha contribuito a migliorare la situazione; anzi, se possibile l’ha peggiorata perché se le statistiche dicono che un relativo benessere si sta affacciando fra la popolazione, in realtà sono pochissime famiglie – quelle che hanno in mano le leve del potere – a beneficiarne. Poi esistono problemi contingenti, legati all’ambiente, che contribuiscono a rendere ancora più precaria un’esistenza ai limiti del sopportabile. La diminuzione delle piogge, registrata negli ultimi anni, sta portando al prosciugamento del lago Ciad: se negli Anni ’60 il bacino idrico aveva un’estensione variante, a seconda del periodo dell’anno, fra i 10.000 e i 22.000 chilometri quadrati, nei primi anni del nuovo millennio si è ridotto a circa 2.500 Km. Il fenomeno ha assunto proporzioni così allarmanti che la FAO ha giudicato la progressiva trasformazione del lago in area paludosa (dovuta anche alla scarsa profondità delle acque), “una tragedia naturale, umana e culturale”. La scarsità delle piogge ha inoltre costretto numerosi pastori e allevatori a spostarsi dai territori del nord sahariano verso le zone tropicali alla ricerca di pascoli migliori per i loro greggi. Ma, così facendo, si sono inevitabilmente messi in conflitto con gli agricoltori del posto che vedono invase le loro terre e danneggiate le coltivazioni. Contrasti che portano a tutta una serie di aggressioni, vendette, faide che la giustizia locale non sembra in grado di dirimere o di giudicare con equanimità. La drammatica situazione in cui versa attualmente il Ciad è sotto gli occhi di chiunque visiti il Paese: una mancanza quasi totale di infrastrutture, un’industria inesistente, un’agricoltura ancora condotta con mezzi arcaici e quasi totalmente priva di ogni tipo di meccanizzazione. L’alimentazione non concede le calorie necessarie per una dieta corretta e dunque pone l’aspettativa di vita intorno ai cinquanta anni, fa registrare un tasso di mortalità infantile pari al 117 per mille, e una uguale percentuale si rileva per quanto riguarda la sopravvivenza delle madri; l’indebitamento con l’estero causato dalla mancanza di esportazioni, le forti spese per l’approvvigionamento di armi… sono tutti fattori che relegano il Ciad fra i paesi più poveri del mondo.

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