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Usi e costumi di Cape Town - Emigrato in Sudafrica, Atto III°

Io, Cape Town, non l’ho ancora capita. E’ una città estremamente europea per essere in Africa, e tremendamente africana per poterla considerare europea. La Montagna è il cuore della città, punto di riferimento fisico e spirituale di tutto. Il mare è importante, ma probabilmente perché ci si specchia la Table Mountain, e non di per sé in quanto mare. La parte cool del centro, quella dei locali, delle casette più belle, dei quartieri dove forse-riusciremo-a-vivere-pure-noi, si arrampica lungo i piedi della Montagna, mentre il centro-basso è brutto, e fa brutto. Oltre, il porto. Poi c’è tutto ciò che non è centro.

Lungo la montagna e lungo il mare, ci sono i quartieri residenziali. Villette grandi, con giardino, bambini, scuole, centri commerciali. Una palla infinita. E noi, per tutto marzo, saremo qui. Nel mezzo tra i due, come la punta di una freccia, la Township. Lì non si va, non bisogna andare, ma non c’è nemmeno un motivo per andarci. Ci si finisce per sbaglio, certo. Ma è raro.

Guardi la montagna e in qualche modo, per ora, ci siamo trovati molto lontani dalle menate. La burocrazia sudafricana ha studiato presso quella italiana, per cui nessuno sa nulla e tutti ti dicono cosa fare. Io non so ancora se sono a posto coi documenti, ma tanto non lo sanno nemmeno loro. Quando la polizia ti ferma in macchina - e siamo a 5 volte - a seconda del loro grado di ispirazione ti creano o meno problemi, perché tanto non hanno mai modo di essere sicuri che i documenti siano a posto. Nessuno sa. E non so nemmeno io se sia un bene, in fondo. Dopo un mesetto scarso che sono qui, ho già le mie certezze, anche se alcune avrei potuto impararle in Italia. Il toaster e il bollitore sono indispensabili, il caffè della moka ti sveglia molto più delle cialde nespresso, e l’acqua nel lavandino qui gira al contrario. O succede da voi, punti di vista. Poi ho avuto la conferma che nel 2014 nei paese anglofoni non abbiano ancora scoperto il miscelatore d’acqua, e così ci si continua a ustionare e raffreddare in alternanza, mentre qui considerano la vasca da bagno l’oggetto indispensabile. E non è poi così male, in fondo. Se c’è anche la doccia a parte, però, meglio. Par contre, ho appena scoperto, dopo 14 giorni in questa casa, che non c’è un bidet. Dimostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, che è un oggetto estremamente inutile e che i francesi, che l’hanno inventato e poi abbandonato, sono un popolo altrettanto inutile. Avere i documenti sembrava la cosa più semplice da fare, dato il mio status di sposato-con-una-cittadina-sudafricana. E infatti, ancora, non ho in mano nulla. Pensavo che trovare una casa sarebbe stato relativamente semplice. Pio illuso. Ogni volta che ne trovi su internet una che ti piace – ovvero una via di mezzo tra quello che ti piacerebbe, la zona in cui vuoi stare e ciò che ti puoi permettere –, fremi. Scopri se puoi portare il cane, poi finalmente telefoni. Hai la mano tremante, hai appena visto 3.718 case e nessuna corrispondeva alla descrizione. Sai che è lei. Sai che è fatta. Chiami. Nessuno risponde. Richiami. Nulla. Mandi una mail. Niente. Insisti. Nulla, nulla, nulla. Quando mai ti rispondono, sai che ci sei quasi. Chiedi un appuntamento. Semplicissimo, tra 11 giorni alle 17. Ma, onestamente, io potrei prima… Lei no. Silenzio, incassi, cerchi altre case e ti presenti all’appuntamento. Sempre che si siano ricordati di mandarti l’indirizzo, altrimenti li insegui altri 10 giorni, ma sai che non ti risponderanno più. Arrivi a vedere la casa, e scopri che siete in 40. Tutti a vedere la stessa casa, tutti alla stessa ora. Le chiamano giornate aperte. E’ una guerra. Grazie a dio mi hanno fatto italiano, così mi presento con tutti i documenti stampati, e alla voce “offerta” ricarico puntualmente 500 R, che saranno 40 €, ma magari la vinco. La pila di documenti, ovviamente, è farlocca. Dovremmo avere un conto in banca – aperto, ma è vuoto –, l’estratto conto degli ultimi 3 mesi in Sudafrica – manca –, due contratti di lavoro in inglese – mancano –, due ID Card – mancano –. Ma con una buona dose di faccia di tolla, una certificazione di Tracy che non dice sostanzialmente nulla e una copia del suo estratto conto, qualcosa ci inventiamo. Alla fine, e questo è un post scriptum, la casa l’abbiamo presa. E’ fotonica, il progetto è sicuramente di Hugh Hefner, ma abbiamo una camera in più, l’idromassaggio e la vista oceano. Siete tutti graditi, anche se è solo per 6-9 mesi. Poi ripartiremo a cercare, ma per ora va benissimo così. Sono venuto qui a cercare lavoro. Ci sono arrivato “con l’incoscienza dentro al basso ventre (e alcuni audaci in tasca l’unità)”, ma fondamentalmente ci sono arrivato a caso. Quindi, sono montato a bordo della Volvo d’oro di mia suocera - ma come si fa a tingere una Volvo d’oro, dico io? - e mi sono fatto tutti i dintorni, CV alla mano, camicia addosso e armato di santa pazienza. Va bene, una veleria era un garage in cui un barilotto biondo riparava vele da kite, ma alla fine 7 colloqui li ho fissati, tutti per il mio lavoro. E dopo anni di Italia con meno di 7 colloqui fissati in tutto, aspetto giù tutta la banda di amici. Poi, prima di festeggiare, vediamo se ne firmo almeno uno. Ma coi tempi africani… Per quanto riguarda la viabilità, qui guida a destra e si supera a sinistra.

Fondamentalmente, però, a sinistra si fermano i taxi-furgoncino, che si sono impadroniti di quella corsia. Lì dominano loro, e nessuno osa avventurarcisi tranne i pedoni, che si lanciano sbraitando in mezza alla strada. I taxisti tengono pigiato il clacson, qui usato come strumento di comunicazione, tutto il tempo per dire che arrivano, che hanno posto, creando quella dolcissima musica che solo le vuvuzuela sanno ripetere. 100.000 taxi, forse qualcuno di più, e il sottofondo è presto servito. Risultato? Tutti fermi a destra, e qualche azzardato sorpasso di là. Poi, quattro frecce per ringraziare quello che ti ha lasciato passare, anche se gli hai tagliato la strada. Polite, sempre. Cape Town è stupenda. In alto c’è il parco naturale, ancora più su la montagna, sotto l’Oceano, eppure ogni giorno ci passo in mezzo e mi sembra già quasi normale. E questo non va bene. Insomma, sabato ho fatto il bagno coi pinguini – ibernato –, venerdì kite surf, l’altra sera eravamo in spiaggia a vedere il tramonto con una birra in mano, nel mezzo ho mangiato fish and chips direttamente dal pescatore alla friggitoria… come può già sembrarmi “normale” tutto questo? Poi domenica siamo andati in cima alla Lion Head a vedere la luna piena. Un’oretta di camminata, ma dalla metà in poi in coda per uno, con centinaia di persone davanti. Al ritorno, un vigile con la torcia a indicare il percorso. E ti rendi conto che non è poi così diverso da corso Vittorio Emanuele a Natale. O dal Fox il lunedì. Insomma, tutto il mondo è paese, tutto è simile a sé stesso, tutto è uguale e ci si abitua troppo facilmente a tutto. Ma per ora, solo per ora, posso giurarvi che sono esattamente dove vorrei essere?

Tomaso Aroldi THREE FACES

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