top of page

Viaggi Musicali - Muxica Muderna: quando la bossanova viene dalla Liguria

Era una notte di mezza estate, la prima volta che ascoltai Muxica muderna di Martino Biancheri.

Metto su il disco, socchiudo gli occhi, e mi sembra di essere ancora lì...

Ho lavorato tutta la sera in uno dei tanti ristoranti disseminati lungo la costa dell'estremo ponenete ligure. Dopo la birretta di fine turno coi colleghi, Fe ed io si decide d'andare a berne un'altra al La Cave, e coglier l'occasione per fare una visita al vecchio Beli, il gestore.

Salutati gli altri e recuperate le moto ci muoviamo verso il centro. Dopo aver parcheggiato iniziamo ad arrampicarci su per gli scalini che portano alla città vecchia di Sanremo.

C'inerpichiamo per i vicoli stretti e ripidi per raggiungere La Cave, mentre parliamo e ridiamo, scherzando su tutto. In giro poche facce, a parte noi e i soliti pusher nordafricani strategicamente piazzati agli angoli per vendere fumo marocchino di scarsa qualità, espressioni annoiate.

D'estate poca gente viene a Sanremo vecchia: tutti in giro per i locali del lungomare, della zona “in” di piazza Bresca, oppure al Morgana.

Son sempre stato più un tipo da birreria, io, e quello del La Cave è il bancone da cui ho iniziato a bere le prime pinte, il posto che ha dato il via a una lunga serie di deliri etilici. Il locale si trova sotto un arco, al piano terra di una delle antiche palazzine di pietra che costituiscono la Pigna, come viene anche chiamata la parte antica della città. Il jazz club sembra direttamente scavato nella roccia, e se non fosse per la musica che filtra dalla finestra e un cartello nero con una scritta bianca che recita “La Cave”, si farebbe fatica a trovarlo. Nessuno arriva qui per caso.

Col fiatone per la salita presa troppo di fretta arriviamo alla scala che porta al locale dove siamo diretti: dalla porta chiusa viene della musica, ma dall'interno nessuna voce. Infatti, dopo essere entrati, ci troviamo di fronte soltanto Belisario, uno dei due gestori, che ci accoglie a braccia aperte dietro al gigantesco bancone di legno. Gli altoparlanti sputano fuori della musica jazz che non conosco. L'odore tipico di ogni buon pub mi coccola le narici: sfumature acri d'alcol e sudore che portano alla mente immagini e ricordi di nottate passate.

Abbraccio con lo sguardo lo spazio angusto, ma accogliente del locale: i soffitti sono a volta, come quelli di tutte le cantine liguri, le pareti di pietra sono ricoperte di legno, ovunque poster e decorazioni bizzarre, con tanto d'alberello di natale e lucine colorate anche se siamo in pieno luglio.

In un angolo ci sono batteria, basso e chitarrra, a disposizione dei vari musicisti che nella stagione invernale si alternano sul palco del piccolo club sanremese tra live e jam session.

Sulla parete opposta agli strumenti, le immancabili freccette.

A quanto pare, per il momento, siamo gli unici avventori del pub. Dopo i convenevoli, ordiniamo un paio di birre, cominciamo a parlare di musica mentre Beli ci spilla due medie con accurata nonchalance.

Il barman è in realtà un percussionista navigato e ci dice che ha appena aperto, che è tornato ora da un concerto in cui ha suonato col suo gruppo. Ci parla di un progetto di musico-terapia che sta svolgendo con i bambini di una delle scuole della provincia d'Imperia. Passiamo da un discorso all'altro, mi parla di vari gruppi in cui suona e, dopo averci pensato un attimo, ammetto ad alta voce di non averlo mai visto esibirsi.

In quel momento finisce il disco che stavamo ascoltando, e come rapito da un'improvvisa folgorazione ci dice:

«L'avete mai sentito il cd di Martino? Muxica Muderna?».

Fede ed io ci guardiamo per un attimo, come a cercar un cenno nell'altro, poi entrambi scuotiamo il capo.

«No, Beli... mi sa che ce lo siam persi...».

«Ecco, allora lo mettiamo su...».

Armeggia con lo stereo e in un tlac, l'album comincia.

La voce di un bimbo.

«Questa è la voce del figlio di Martino...».

Dice Beli in tono quasi enigmatico. Deve averlo capito che nella testa ci frullano un sacco di domande e, da oratore consumato, prende una pausa sporcandosi di birra i baffi. Li pulisce con il dorso di una mano e continua:

«Non conoscete Martino Biancheri?! E' un trombettista piuttosto bravo della zona, ha collaborato e collabora con orchestre e gruppi di ogni tipo. E' di Vallebona, fa il contadino negli ulivi della sua famiglia e gli è nato un figlio da poco...».

Altra pausa, e il mio compare ed io ormai siamo muti ad ascoltarlo, mentre scorre la prima traccia dell'album: Dund'andai? Dund'on d'andà!, bossanova agitata, allegra, la tromba squilla vivace e fa dà contrasto alla voce profonda di Martino, che oltre a suonare, canta anche le canzoni che ha scritto e arrangiato.

E' il nostro Cicerone a darci queste informazioni.

«E proprio perchè aspettavano un bambino ha deciso di scrivere questi pezzi. Canzoni bossanova in dialetto ligure».

Mi passa la custodia dell'album e mi invita a dare un'occhiata alla copertina e al libretto. L'immagine che fa da sfondo è una foto d'epoca di un giovane uomo in piedi, che guarda dritto di fronte a sé.

«E quello in copertina è suo nonno. Come se volesse chiudere un cerchio, no?».

A pensarci bene, la prima cosa che mi ha colpito di Muxica Muderna, era proprio questa volontà di voler far incontrare due generazioni lontane – quella del nonno e quella del figlio.

Altri ascolti mi hanno fatto pesare al desiderio di voler lasciar qualcosa, di voler tramandare insegnamenti al proprio figlio con nozioni tanto semplici quanto sagge, nate in seno a una cultura contadina che sta andando persa nonostante tutto quello che avrebbe da insegnare. L'importanza di identità e memoria si riflettono anche nella scelta dell'uso del dialetto per comporre i propri testi.

Beli ci dice che anche lui suona nel disco come percussionista, ci parla delle fasi di registrazione. Si vede che è felice di aver partecipato a un progetto del genere, e man mano che il disco va avanti non posso fare a meno di constatare che le aspettative che il barista sta creando col suo entusiasmo vengono confermate dalle sonorità e dalle parole che risuonano dalle casse.

Sonorità fluide, distese ampie di musica strumentale di ottimo livello si alternano a testi di una poetica sopraffina, che trova il suo apice in canzoni come A luna, o U Mundu, U Sù.

Saperi antichi e proverbi vengono mescolati, ricomposti per essere relazionati alla realtà attuale, per piantare dei capisaldi con cui affrontare meglio il mondo; una specie di testamento, una ricerca nelle proprie radici, un messaggio che cerca di dare ai valori insiti nella cultura rurale nuovo slancio e vitalità. Una speranza che nasce dalla rielaborazione e dalla condivisione della memoria, un'opera che vuole invitare a stare coi piedi per terra in un momento confuso della storia, che sostiene che l'unico modo in cui si può davvero pensare di cambiare il mondo è cambiando sé stessi.

Mentre ascolto le canzoni di questo cantautore polistrumentista, leggo i testi dal libretto, tradotti in inglese, oltre che in italiano. È una perla rara quella che stringo tra le mani in questo momento, un'opera d'arte che racchiude in sé diverse sfaccettature, senza aver la prestesa di volersi imporre al grande pubblico. Un progetto che colpisce estremamente per la sua semplicità e il suo valore pedagogico, oltre che storico e culturale. La celebrazione di una nascita nel cerchio di sangue che unisce una famiglia.

Un viaggio nella musica e nelle tradizioni, nei proverbi dei vecchi contadini e le loro storie, che nascondono nella loro apparente banalità un messaggio segreto che è lì per chiunque voglia trovare il tempo di ascoltarlo.

U Mundu

Gh'è chi aresta chi e chi se ne va via, chi s'asseta a l'ustaria tanto lì nu ghe ciove mia. Se sente predicà ma a messa a lì è fenìa...

[…] Gh'è certa gente ch'a nu l'è bona ni a parlà ni a stà sita, e i piglia pè a carà perchè a munta a l'è fatiga, ma chi g'ha i brassi boi e le gambe pè caminà u nu po mia dormì d'in pei e stassene cun e mae in man. Da sulu u mundu u nu scangia nu e nu u puremo scangià nui, ghe sun trope cose da fà che nu ti sai da che parte incumensà. Se sa che dopo ina note turna a sciorte u sù: figliu garda de sta asbigliu ch'u mundu ti sei tu!

Traduzione:

C'è chi resta qui

e chi se ne va via

chi si siede all'osteria,

tanto lì non ci piove mica.

Si sente predicare,

sì, ma la messa è finita...

[…] C'è certa gente che non è buona

nèè a parlare, né a stare zitta,

e prendono la discesa

perchè la salitè fatica.

Ma chi ha le braccia buone

e le gambe per camminare

non può mica dormire in piedi

e starsene con le mani in mano.

Da solo il mondo non cambia

e di certo non lo possiamo cambiare noi...

Ci sono troppe cose da fare

e non si sa da che parte cominciare.

Si sa che dopo una notte

torna a sorgere il sole:

figlio vedi di star sveglio

che il mondo sei tu!

Andrea Federigi

THREE

FACES

RECENT POSTS:
SEARCH BY TAGS:
bottom of page