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La frenesia dei tamburi - Viaggio in Marocco

La sabbia evapora all'orizzonte, rendendo opaco il sole, e filtrando i colori del tramonto. Delle figure si muovono tra le palme. Fa caldo. Una patina appiccicosa cosparge il mio corpo e il respiro si fa pesante. Non ho difese qui. Ogni cosa penetra i miei occhi e si conficca nella mia mente.

Con il silenzio dello stupore cammino per queste strade sporche, puzzolenti e ricche di un'architettura perfetta. Rosse le pareti e nero unto il pavimento. Ogni cosa in questo luogo sembra al suo posto. Il caos mi carica di adrenalina, il ritmo dei tamburi, il parlare della gente si uniscono in una canzone. E' inevitabile farsi toccare. Si avvicinano e mi offrono pozioni, serpenti, datteri, scimmie... E chi non arriva con le mani mi tocca con le parole, e forse ho un po' di paura negli occhi: loro la vedono.

Mi muovo seguendo chi è con me, perché ormai ho perduto l'orientamento, non so più

che ore sono. Dagli odori potrebbe essere mezzogiorno.

Sguardi duri sotto il sole. Occhi neri da non distinguere iridi e pupille. Pelle vestita di polvere di gesso e legno. Mani che tengono nei nodi delle dita la pressione, la concentrazione e la precisione. Quello che è importante sta dentro quelle forme geometriche scolpite e dipinte. Ciò che conta è in quei colpi di scalpello e nell'odore del legno e di vernice. Ignorata la fatica e il sudore, colpo dopo colpo, segno dopo segno scandiscono il tempo e le mani danzando si fanno ricche di sapere. Guardo in

silenzio e capisco. Occhi pieni di colori, i miei.

Ciò che rimane dell'aria fredda della notte, vicino al deserto, stringe il mio corpo dilatato dal sonno. In pochi attimi. Le strade dormono ancora, e anche quel sonno mi sembra irrequieto. La città si prepara ad affrontare di petto il nuovo giorno, ungendo di olio i tegami neri dove si cucinano prelibatezze salate, di pesce o di carne secca e uova. Uomini bevono tè bollente e schiumoso, da bicchierini lunghi e tutti disegnati.

Parlano, ma non so di cosa, ai bordi delle strade, seduti a terra e a piedi scalzi. I loro corpi sono già svegli, coperti da vesti usurate e già sporche.

Quella notte mi addormentai per disperazione. Non ne potevo più. Ero stremata.

Quelle vibrazioni oltrepassavano il mio corpo come la corrente fa con una lampadina. La spensi.

Sentivo una voce che cantava una lingua sconosciuta. Una voce virile e forte, bellissima. Nella nebbia del dormiveglia, ammaliata seguivo quel suono, a tratti sentivo i morsi della paura. Paura di averlo vicino. Non sapevo dov'ero, attorno nessun indizio che mi facesse ricordare. Il cuore all'impazzata martellava il mio sterno fino a quando il sogno si dissolse e riuscii a capire che l'uomo era lontano e che era l'ora della preghiera.

Non c'era differenza tra le forme degli stucchi e quelle dei dolci, disposti sui vassoi in modo ordinato. Les cornes de gazelles tutte parallele, mandorle e canditi al centro di ogni rosella di pasta di mandorle, decorate da zigrinature divergenti. I miei occhi si spostavano dal vassoio al muro e vedevo coerenza. Stessa pienezza, stesso modo di concepire i vuoti. Tutto si completava. La dolcezza sulla lingua mi ricordava casa. Quel posto lo sentivo mio.

Entrai in questa stanza. Nuda. L'acqua nell'aria bruciava e scioglieva il sangue che pulsava nelle tempie. Attorno a me altri corpi nudi, indaffarati in una pulizia profonda, intensa e silenziosa. L'odore di menta era un balsamo per l'olfatto e ungeva la mente. Sentivo soltanto il rumore dell'acqua che dalle teste scivolava giù per il corpo, portando via residui di settimane intere. Una donna magrissima, dai seni appassiti iniziò a spalmarmi addosso, una pasta marrone e grassa, senza temere il pudore. Le sue mani dalle unghie arancioni di henna, disegnavano sul mio corpo acerbo dei cerchi.

Mi sentii indifesa, seduta sul pavimento bagnato, nelle nuvole di vaporecaldissimo. Temevo di svenire. La donna si allontanò per poi tornare ancora sul mio corpo, con l'energia che il lavoro necessita. Sfregava su di me una spugna ruvidissima, come un falegname sfrega su di una tavola di legno. Sentii un leggero dolore, la pelle incandescente e mi ritrovai con il corpo cosparso di trucioli, ma dopo, una sensazione di freschezza mi diede sollievo. Accovacciata davanti a me, la donna dalle unghie arancioni concluse il rito tirando fuori da un secchio, scodelle di acqua bollente, che versava su di me.

L'acqua violenta portava con se i miei trucioli, avanzi delle giornate al sole. Uscita da lì feci riposare il mio corpo nuovo, sopra un divano, dopo aver mangiato pomodori e coriandolo, fagioli e limone candito. Sorseggiai il mio tè alla menta: convinta di avere trovato il mio posto nel mondo.

Tutto è mio, adesso lo sento. Non capisco quanto di tutto ciò potrò custodire nel mio cuore capiente, le lacrime di gioia sono il segnale della mia soddisfazione. Adesso che da te sono lontana, sento la solennità delle tue preghiere cantate dalla moschea, so quanto nobilitato è il mio spirito. Sono ancora tra la sua gente, sola di persone come me, in mezzo alla sua tempesta. Così la voglio. Uragano.

Un consiglio: nella frenesia dei tamburi, intreccia, trafora, colpisci, scava, schiaccia, sfrega, immergi, dipingi, piega, mescola, brucia, taglia, incolla, accarezza, disegna, cuci, annusa, gonfia, tendi, soffia...

Soffermati sugli sguardi, accarezzato dall'aria del tramonto che muove le palme e ferma il lavoro. Calma il tuo animo. Respira gli odori.

Cristiana Ballisto

THREE

FACES

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