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"Konica Minolta, prega per noi" - Viaggio in Cina, atto I

La prima cosa che ho pensato una volta arrivata in Cina, è stata un abbozzo di realizzazione del fatto che ci ero arrivata per davvero, seguito da un subitaneo blackout da cui mi sono ripresa appena ora, una settimana e mezzo dopo. E non per il jetleg.

Il primo gomito a gomito col muso giallo, è stato in coda per l'imbarco dal Cairo. Cinesi in Egitto: il mio vicino di posto insegnava pure inglese in una scuola egiziana.

Fino a qualche anno fa i cinesi vacanzieri erano rari all'estero, se vedevi un orientale e non sapevi come collocarlo, beh, sapevi che non poteva essere cinese, dato che erano ancora troppo poveri e timorati di Mao.

Ora invece insegnano addirittura inglese agli egiziani, sopportando diplomaticamente il loro congenito lassismo meridionale. Il mio compagno di viaggio è magrissimo e altissimo, e quando si addormenta, il collo gli prende una piega strana e sembra un fenicottero.

Quando mi parla calibra ogni parola, muove piano le mani. Mi viene in mente d'aver letto appena due giorni prima, sull'Internazionale, un articolo intitolato “Le fattorie di Mao”, così gli chiedo se ne sa qualcosa. Mi dice che sì, è una bella idea perchè il cibo delle grandi città è sempre più scadente e infetto, ma della filosofia di queste “comuni”, della matrice ideologica maoista, dà segno di non voler parlare.

Prima di addormentarmi nell'ultimo sonno pre-oriente, sento un sonoro risucchio di saliva dalle note piuttosto rumorose e sfacciate. Penso che “questi son proprio cinesi”, e rido sotto i baffi mentre l'hostess mi colloca il rancio sotto al naso. Dopo due settimane ormai gli scracchi non mi sorprendono più, sono all'ordine del giorno, cadenzano la quotidianità del marciapiede di chi vende mele e pere, di chi chiede l'elemosina e di chi passa.

Il passante medio è come ci si aspetta: camicia bianca a manica corta, pantalone da impiegato, scarpa a mocassino di finta pelle, occhiali rettangolari e sguardo ancora immerso nelle scartoffie. In generale mantengono quasi tutti un basso profilo, ma non posso fare a meno di immaginarmeli sudati marci, seduti su un divanetto del karaoke a bere cocktails di dubbia qualità, intonando come capre canzoni per lo più a noi sconosciute.

I cinesi hanno indubbiamente molte passioni, prima tra tutte, la comune venerazione dell'occidentale, bestia rara da trattare con particolare riguardo. Per esempio: vuoi fumarti una sigaretta, automaticamente avvii il braccio a cercare il bravo pacchetto. Nossignore. La sigaretta ti viene offerta sempre, comunque e in continuazione, e se proprio sei riuscito a sfuggire a questa galanteria, non giungerai comunque ad accenderla col tuo accendino.

Camerieri da strada...

Ai cinesi piace fare le cose “in continuazione”, tipo i brindisi: in cinque minuti si giunge a brindare quindici volte senza apparente motivo. Come è senza apparente motivo la presenza di quantità industriali di birra sui tavoli a cui siedono solo due persone. Chiaramente bisogna partire dal fatto che i cinesi non sono proprio dei bevitori dallo stomaco di ferro. Anzi, forse la cartapesta rende meglio l'idea.

Comunque, se sei occidentale, puoi davvero spassartela senza tirare fuori una lira: nei club riescono sempre a farti entrare gratis e farti avere abbondanza di bottiglie e frutta. Poi non si capisce mai chi sia lo sponsor, come non si sa mai quale sarà l'esito della serata.

Ad ogni modo, a me i club fanno cagare.

Eppure, qui, van tutti matti per 'sti maledetti club. Sarà che in occidente si fa così, e quindi bisogna far così anche qui. Mi amareggio. Esco dal locale e mi sento rinascere sotto un fitto agglutinamento di stelle artificiali.

Le luci. A Pechino c'è un inquinamento luminoso stratosferico, ed è dovuto alle insegne di banche, hotel e negozi; ci sonoedifici così alti che sembrano essere gli dei cittadini. Un Konica Minolta blu elettrico gigantesco sovrasta il panorama: "Konica Minolta, prega per noi".

C'è da dire che l'insegna luminosa un tantinello esagerata è comunque in piena linea con il tremendo gusto kitsch cinese. A me, le insegne, son già servite come promemoria gratuito ed estemporaneo: nella notte torreggia a mezz'aria il carattere di Shan (montagna ), che mi ricorda che devo scrivere una tesi sulle montagne e prenotare un viaggio per visitare Kunlun, e che anche le montagne di Avatar sono qui in Cina. Mi ricorda soprattutto, che ho dimenticato a casa il libro da leggere per la tesi.

Stiamo girovagando, il mercoledì sera non c'è molta movida anche se siamo nel quartiere più frenetico e divertente della città, Sanlitun. Ci attrae un piccolo salottino da marciapiede: due divani collocati davanti al tabacchino, un ombrellone del KFC, sgabelli e un fornetto per i wurstel. Paghiamo una birra grande meno di un euro, e ci sediamo su quel comodissimo divano lurido, ad un tratto penso che ho gli occhi pieni di una modernità fuoriviante che, mescolata agli ingorghi, ai cinesi rapiti in massa dagli smartphone in metro, alla moda farlocca europea - tipo Prapa al posto di Prada, e Salvadg Ferrgnnmo al posto di Salvatore Ferragamo -, svia dalla profondità e dalla spiritualità tipiche della cultura cinese, che mi sembra sotterrata da quest'ottusa volontà di ricchezza e apparenza.

Poi mi metto a ridere perchè passano due donne che indossano un orripilante calzettino trasparente color carne che gli strizza la caviglia.

Francesca Succi

THREE

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