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Verso la rovina - Viaggio in Messico, atto V

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Palenque non è tutta vita. Non è nemmeno un paradiso verde. Palenque è proprio brutta e a volte mi vergogno a pensarlo, non si parla male del Messico in presenza del Messico e in mezzo al Messico. Comincio a fare le bizze dentro di me sperando di riuscire a vedere un po’ di mare il prima possibile, non lo dico a Francesca perché lei ci tiene molto alle rovine, alle piramidi - “i sassi” - come volgarmente li definisco. Per fortuna il sito archeologico Maya è a pochi chilometri dal centro abitato (bruttissimo centro abitato, devo dirlo ancora) e per non doverci caricare di nuovo come cammelli decidiamo di acquistare un biglietto per un piccolo tour che ci accompagna in un paio di tappe importanti di quella zona: le rovine di Palenque, Misol-Ha e le cascadas de Agua Azul. Questa volta il pulmino non è uno dei colectivos, abbiamo invece l’impressione che sia un tour molto ben organizzato. Ci vengono a prendere, puntuali e particolarmente presto, passiamo a ritirare altri pacchi umani di prima categoria, il primo a salire è un giovanotto tedesco pulito e sorridente che pernotta in un complesso residenziale simile ad un parco divertimenti a tema. Anche gli altri provengono da hotel pluri-stellati e la cosa da una parte ci inorgoglisce, dall’altra ci fa sentire troppo comode, troppo “turiste”. Fa niente, per una volta ci facciamo un viaggio tranquillo senza pensare a nulla.

Giusto il tempo necessario per rompere il ghiaccio con il giovanotto tedesco e siamo arrivate alla meta, alle rovine. Una volta scese non vediamo subito le piramidi, camminiamo lungo una strada gialla di polvere ma ordinata lungo la quale siedono i mercanti di souvenir e cianfrusaglie locali. Il cielo è di nuovo grigio e si appoggia leggero sopra tutte le tonalità di verde che si aprono su grande parco. Ci sono molte persone ma lo spazio è talmente vasto che sembriamo tutti piccoli soldatini silenziosi alla ricerca di un mostro gigante che prima o poi salterà fuori. Qualcuno ha il binocolo, altri come me stanno pronti con la pistola fotografica puntata, i più lenti si trascinano sudati dietro le guide che stanno al comando, qualche coraggioso aumenta il passo ed esplora oltre i confini delle corde ai bordi della strada. “Andiamo tutti verso la rovina!”.

Mi sembra sia una freddura appropriata e cerco di spiegarla al giovane tedesco che sorride ma in realtà non ha capito, è solo la sua faccia.

All’improvviso tutti rompono le righe, ognuno prende la propria strada con estrema confidenza lasciandoci ferme a contemplare le decine di cartelli che mostrano l’inizio del percorso. Da dove cominciare? Ci guardiamo, il giovanotto ci guarda in tedesco, noi non lo capiamo. Andiamo dove

nessuno si è permesso perché è li che troveremo la cosa più bella, ne sono certa. Facciamo un bel pezzo di strada in solitudine, troviamo alberi altissimi a largo fusto, purtroppo non ci sono cartelli o informazioni sui nomi di questi ultimi, ma sono sicuramente centenari e hanno radici così grandi da potercisi sdraiare sopra. Scendiamo lungo le scalette naturali di pietra che ci portano ad un piccolo ponte stretto ricoperto di verde, assediato dal verde, come lo siamo noi. Piccoli e inutili esseri umani che si muovono a caso in mezzo ai giganti della Jungla, siamo la carne debole e sottile intorno alle ossa robuste della terra, se cede lo scheletro finisce tutto. Mi sento impotente, non è paura ma più una consapevolezza di non poter far nulla di fronte a ciò che potrebbe scatenare la natura contro di noi, eppure mi sento al sicuro, mi sento a mio agio sapendo di non essere al comando, sapendo di non avere alcun potere su ciò che mi sta attorno e so che questa è la verità, che stiamo vivendo veramente da uomini, da animali: vulnerabili, indifesi e liberi.

Dopo una lunga passeggiata nel buio diurno della jungla arriviamo finalmente ai grandi sassi. Che sciocca sono stata a pensare di non restare a bocca aperta davanti a questo spettacolo. Forse alcune di queste piramidi non sono così alte come me le aspettavo ma non è la dimensione a lasciarmi di stucco, quanto piuttosto la forma e la struttura: sembra che sbuchino da sotto la superficie terrestre, come se quello che vediamo noi fosse solo la punta dell’iceberg, hanno basi così precise e definite che immagino si estendano ancora per migliaia di chilometri sotto di noi, fino al cuore pulsante della terra. Le rovine disordinate delle acropoli mi hanno sempre lasciata indifferente. Certo, il collegamento visivo con un’altra dimensione storica è qualcosa di unico, la memoria di un tempo lontano che resta solida in mezzo alle colonne del nuovo mondo, a pensarci bene monumenti e fortificazioni sono una testimonianza preziosa del passato alla portata di tutti. Ma per me non sono mai stati una passione. Tuttavia, davanti a questi giganti silenziosi non posso fare altro che fermarmi e contemplarne tutta la sorprendente bellezza.

Ci sono diversi templi, ognuno dei quali era destinato ad un preciso utilizzo. Seguiamo da lontano una guida italiana che ci introduce verso il Tempio del Sole, a parere mio il più bello e misterioso, arriviamo poi al palazzo principale e al Tempio delle Iscrizioni, forse il più importante dell’intero sito. Cerchiamo di ascoltare la guida abbronzatissima italiana, un uomo di mezza età vestito interamente di bianco, per niente sorridente forse quasi annoiato. Lo osservo mentre indica rapidamente i vari punti delle piramidi. Senza voltarsi mai verso i suoi ascoltatori cammina attento in mezzo agli ostacoli, ogni tanto si preoccupa di soccorrere qualche donna intrappolata nella gonna che non riesce a salire gli alti scalini e poi prosegue con la sua andatura veloce e sicura.

Dietro di lui tutti guardano prima a sinistra poi a destra e poi di nuovo, con lo sguardo inebetito ripetono il giro di occhiate, da una parte e poi dall’altra, fermandosi ogni tanto per scattare qualche foto. Francesca, il giovanotto ed io siamo gli outsider, rubiamo le parole della guida e ogni tanto usciamo dai confini. Poi la guida ci stanca, così decidiamo di perderci del tutto. Troviamo finalmente le tracce per raggiungere il punto d’incontro, seguiamo le frecce in senso contrario sperando che comunque ci portino verso gli altri e, dopo aver appurato di aver percorso tutto il circuito precisamente nel senso opposto, arriviamo alla navetta.

La prossima tappa è solo un intermezzo prima di raggiungere la meta più importante: si tratta delle cascate di Misol-Ha, in realtà un unico grande getto che si tuffa verticalmente in un piccolo cratere d’acqua. Ci avventuriamo sotto la cascata formando una lunga coda che si muove lenta verso il punto più centrale del getto. Raggiunto lo scopo di fotografare l’acqua tutti tornano indietro muovendosi scoordinati sopra i massi umidi e scivolosi. Di nuovo sulla navetta ci avviamo verso le cascate di Agua Azul.

Il pulmino comodo ci lascia tutti quanti presso un edificio grande e vuoto, senza porte o cancelli, solo grandi mura alte e di pietra che proteggono un piccolo chiosco all’interno. Ci sono due distributori automatici ai lati del bancone e il piccolo bar al centro vende toast giganti fatti apposta per i turisti dalla digestione complicata. Ci sono cani ovunque che aspettano le briciole e i nostri avanzi. Ne individuo subito uno che ha l’aria simpatica, compro due panini al chiosco, uno per me e uno per il mio amico spelacchiato. Ha una specie di parassita in una narice: Francesca lo vede e mi invita a non toccarlo. Purtroppo la mia natura canina m'impedisce di provare alcun timore verso cani randagi e invece di evitare il contatto mi improvviso veterinaria e cerco di rimuovere il corpo estraneo dal naso del mio povero amico. Francesca si allontana mimando un finto conato di vomito, ma è inutile, ho bisogno di liberare il cane da quella presenza e per un attimo non penso alle cascate, ma soltanto alla missione di pace verso il quadrupede. Niente da fare, nonostante lui non si ribelli e sia del tutto mansueto non riesco a portare a termine l’operazione. Sono costretta ad abbandonarlo al suo destino e al suo parassita. Solo chi ha un certo trasporto verso i cani può capire la mia infinita tristezza, avrei voluto portarlo con me, dargli da mangiare, curarlo e togliergli quell’essere disgustoso dal naso. Francesca mi scuote una spalla da dietro, mi dice che dobbiamo andare e di lasciar perdere il mio amico, che tanto come lui ce ne sono centinaia. E’ vero, come lui ce ne sono centinaia, ma questo non mi rincuora, mi sento male e per qualche minuto non apro bocca, camminando davanti a tutti gli altri, con il mio passo svelto per seminare la compagnia.

Siamo di nuovo spersi in mezzo al mare verde, che non abbiamo mai abbandonato in realtà. Alzo la testa verso gli alberi giganti che mi prendono in giro: se ne stanno lì, immobili a fissarmi mentre cerco di capire il senso di tutta questa grandezza, gli anni passati a leggere cose, a capire le parole degli altri, a innamorarmi, ad arrabbiarmi, a desiderare, mentre qua nasceva il mondo, immenso e pieno di pace, senza nessun bisogno se non quello di esistere, respirare ed essere solo bellezza. Gli alberi lo sanno, hanno capito tutto. Io me ne sto sotto di loro a non capire nulla, a non essere nulla.

La strada è in salita e la fatica sulle gambe mi distrae da quella dell’anima, ho fame e compro delle banane, sono piccole come non le avevo mai viste, sono banane vere non quelle specie di armi da fuoco che ci arrivano dalle coltivazioni chimiche. Dopo averle mangiate, ho ancora fame, perché in effetti sono parecchio piccole. Non abbiamo tempo per mangiare perché tutti stanno procedendo a passo svelto verso le cascate: i primi devono aver già visto un angolo azzurro di acqua perché gli altri dietro hanno aumentato il passo per non perdersi quel pezzetto di mondo. Vogliamo guardarlo prima di tutti, prima che tutti quegli occhi lo sporchino, vogliamo stare davanti, sgomitare per vedere quell’animale maestoso di roccia e sangue blu. Mi vengono in mente i tre cinefili di Bertolucci che si siedono proprio sotto lo schermo del cinema per prendersi il primo schiaffo del film, prima di tutti gli altri, affinché l’immagine pura si appoggi subito sulle loro facce.

Eccoci qua infatti, appoggiati alla balaustra di legno sopra il serpente d’acqua blu, lo vediamo muoversi sotto di noi, lo sentiamo respirarci addosso, maestoso e potente. Ci sporgiamo per vederlo da vicino e proprio quando la mano riesce ad accarezzarne la pelle liscia dietro di lui appare tutto quanto il corpo nella sua sconcertante bellezza. Alzo gli occhi e non conosco quel colore, cerco i pantoni nella testa e non trovo nulla che assomigli a quella gradazione così luminosa ma intensa e ferma. Ci vuole un po’ prima che le nostre facce tornino ad avere un’espressione normale, una volta chiusa la bocca ed emesso il primo “wow” riprendiamo il cammino verso la coda del serpente blu. C’è ancora da salire e trovo il modo di pensare a quello che mi sono portata dietro, tutto tranne il costume.

«Tutto tranne il costume, cazzo!».

Francesca mi rimprovera con un calcio in culo che mi sveglia all’improvviso dal trip dei pantoni. Lungo la strada in salita ci sono i soliti mercati di cianfrusaglie,perlopiù teli, arazzi, amache e tanta, tantissima frutta fresca. Cominciamo a rallentare e vediamo gruppetti separati che bivaccano intorno alle panchine, si stanno spogliando per mettersi il costume. Arriva il secondo calcio in culo e la certezza che mutande e reggiseno andranno benissimo. Mi siedo sulla riva della cascata, il serpente ogni tanto si ferma e lascia riposare il suo corso in piccole piscine naturali per poi ributtarsi inquieto fino in fondo alla valle.

Tiro fuori la macchina fotografica e trovo subito il candidato perfetto, un bambino completamente vestito con maglietta e calzoncini che invita gli amici a raggiungerlo in acqua. Si fa lanciare la maschera dai genitori e comincia ad esplorare. Non c’è nessuno intorno a lui e l’acqua è immobile. In quel momento penso di voler restare fuori a guardare il colore del serpente, ad ammirarlo mentre compone un silenzioso corso d’acqua blu. Arriva il giovanotto tedesco e mi chiede di entrare insieme a lui, lascio le nostre cose a Francesca e mi immergo nel paradiso. E’ soltanto acqua, la solita sensazione di bagnato che si prova andando al fiume o al mare: prima le gambe, poi lentamente l’addome, le spalle e poi la testa. La sensazione umida è la solita di tutti gli altri posti umidi, ma cambia tutto. Mi sento di nuovo vulnerabile ma con i piedi liberi. Il serpente blu è calmo ma potrebbe svegliarsi all’improvviso, decidere di scappare veloce, giù in fondo alla jungla e trascinarci insieme a lui dentro il suo corpo caldo, dolce e potente. Siamo dentro di lui, siamo in mezzo al suo sangue e alle sue vene. Mi tengo addosso l’intimo perché non vorrei mancargli di rispetto. Una nuotata, due bracciate tranquille e misurate e poi lascio entrare Francesca.

Agua Azul non è prettamente una zona balneare quindi il tempo di darsi un’asciugata e i visitatori devono ripartire, per fortuna non vediamo nessuno con seggioline, sdraio, ombrelloni e panini incartati col domopak. Per fortuna non ci sono italiani che fanno gli italiani. Ci mettiamo in fila indiana e, in silenzio, ci allontaniamo dalla bestia addormentata.

Benedetta Bendinelli

THREE

FACES

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