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Madrid - Viaggio in Spagna

I raggi di luce, ancora potenti nonostante l'ora piuttosto tarda si specchiano nell'artificiale rettangolo di Nilo che circonda il templo de Debod.

Seduto sul prato, davanti al tempietto, mi avanza l'ultimo sorso della birra ormai un po' calda comprata dall'ambulante cinese.

Non sto facendo niente in particolare e non so perchè mi trovi qua, in fondo è solo domenica.

Ho vagato dopo essere sceso dalla metro in una fermata scelta, direi, a caso.

Luoghi casuali, per un giorno casuale; per sfuggire all'apatia domenicale ho scelto di perdermi per i luoghi da cui passo tutti i giorni, che frequento tutti i giorni, ma non casualmente.

Mi alzo e un po' stordito giro attorno al rettangolo dando un'occhiata distratta al tempio. Mi soffermo a guardare il paesaggio. Sono sulla cima di un colle.

Blocchi identici grigi, blocchi identici di mattoni rossi; il verde a chiazze gialle sconfinato e lo spruzzo d'acqua del lago artificiale che c'è laggiù.

La Casa de Campo. Da questa parte la metropoli infinita termina bruscamente in un grande parco.

La scalinata da cui abbandono il parco è breve ma ripida.

Orde di taxi infuriati, autobus, fotografie, gelati che si squagliano mentre si mangiano; Don Quijote e Sancho Panza guardano dall'impassibilità del loro bronzo lo spettacolo brulicante di caos.

Plaza de España piena di gente, tanto movimento, tanta inutilità, tante le contraddizioni; eppure adesso ci trovo la stessa pace di un eremo di montagna.

Ho un passo svelto, non me ne accorgo. Mi accorgo di tutto ciò che mi circonda.

Ho dimenticato solo il mio corpo.

Sto attraversando la piazza, le aiuole sono consumate, piene di tappi incastonati nel terreno; sull'erba lessata dal pesticcio,una ragazza. Nonostante porti gli occhiali da sole io so che ha posato lo sguardo su questa sagoma che avanza sulla piazza con passo diverso, deciso, svelto, ma improvvisato.

Lei mi appare in un modo che definisco carino, snella, castana, lineamenti fini; ha poco seno e ciò rafforza la sua immagine agile, elegante.

I nostri sguardi celati dagli occhiali da sole sicuramente si stanno incrociando. Congelo quest'istante.

Catturo il suo naso allungato, ma aggraziato, il suo collo scoperto e longilineo.

Quel neo, come un segno di unicità, nell'angolo, sotto una bocca piccola e marcata che un sorriso sicuramente animerebbe.

Il mio passo fa sì che questa sospensione finisca alla svelta, lei abbandona il mio campo visivo.

E' come se queste immagini sensoriali catturate modificassero la realtà, un'eventuale azione, un approccio, fossero dei gesti sacrileghi in questi momenti.

Il vigore di questo ipotetico scambio di sguardi, percepito però più reale del reale, mi spinge avanti come un vento che soffia in poppa.

Navigo adesso in un grande fiume, pieno di correnti, pieno di direzioni; anche io ho una mia corrente tanto avanzo deciso evitando le altre, frontali, laterali, posteriori.

Sono tutte persone, ognuna con un passo diverso, un'intenzione diversa.

Un fiume che scorre racchiuso da un grande canyon di palazzi giganteschi.

Il grande fiume è la Gran Via. La Gran Via con i suoi palazzi mastodontici dalla sola parte alta imbevuta di sole, mentre il letto del fiume è in ombra. La corrente al centro quasi non scorre. Macchine ed autobus fermi, c'è molto traffico. Ecco inizia l'adagio del concerto per clacson.

L'avventura con quella ragazza si è già sgretolata, ha perso la sua energia, ormai è parte della collezione di immagini che sto raccogliendo. Ma a cosa servono tutte queste immagini?

Non è tempo di cercare una risposta che forse non esiste, voglio continuare e basta, è la vista stessa ad interessarmi, è come se mi fossi eclissato per lasciare spazio alla città. Come se, svuotato dai miei scopi, mi lasciassi invadere da tutti i detriti trasportati da questo fiume.

Chissà cosa c'era prima in quest'angolo, prima di quest'epoca, non ne ho idea, vedo solo ciò che è oggi il piano terra di questo palazzo d'angolo, un fast-food. L'angolo è quello con calle de la Montera, la via che scende fino alla puerta del Sol.

Fast-food, cibo veloce, anche se il ritmo della digestione è sempre lo stesso da secoli credo, anzi questo cibo veloce pare essere piuttosto pesante.

Sono le cose come questo cibo ad accelerare tutto? O è la vita che accelera e richiede un consumo più veloce?

Eppure si vive più a lungo, con intensità logorante andiamo rapidi verso una vecchiaia sempre più lontana; detto così è un controsenso perchè tutto farebbe pensare ad un deperimento più veloce.

La soluzione del paradosso credo di averla davanti agli occhi, in questo fast-food. Consumare per non consumarsi, consumare dell'altro o degli altri al posto di noi stessi, l'uomo come una macchina, a patto che l'umanità sia doverosamente sparita. Non è globalizzazione, a questo punto è istinto di sopravvivenza.

Questo è anche l'angolo dei punk, adesso sono in tre, ci sono sempre, sono corrosi nel fisico, le mille borchie hanno preso un po' di ruggine, le creste a tratti imbiancate, la pelle dei giubbotti un po' sdrucita; sono dei reduci di guerra, come quei soldati giapponesi che continuavano a difendere il loro atollo nel Pacifico nonostante la guerra fosse finita da anni; il loro avamposto non a caso è di fronte a questo edificio d'angolo, un simbolo, stanno facendo la veglia funebre alla loro idea.

Mi stacco dalla grande corrente e prendo calle de la Montera, è in discesa con al centro una fila di alberi stentati.

Diversa gente è adesso meno frenetica. Molti individui con un cartello al collo penzolante, i compro-oro; diversi altri più tenebrosi appoggiati ai muri squadrano chi passa apparentemente nullafacenti. Un qualche tipo di lavoro lo stanno però facendo.

Poi molte donne, per lo più giovani e discretamente belle, che da sotto gli alberi scrutano chi passa; il loro lavoro è meno misterioso, è riconoscibile a centinaia di metri di distanza, dalla loro montura tipica in ogni angolo del mondo. Quegli abbinamenti di colori inconfondibili, rosa fucsia e verde pisello, zebrato ed oro. Come quei tessuti tanto dozzinali quanto difficili da trovare.

E' come se tutto facesse parte di un linguaggio codificato durante secoli, studiato per farsi riconoscere in silenzio.

Osservo le loro posture, le loro mani, il modo in cui trasformano ogni sigaretta in un fallo. Però osservare è il messaggio tipico del cliente, quindi il mio distacco, il mio sguardo immerso e non partecipe soccombe, ho parlato chiaramente; infatti una di loro si avvicina pronta a soddisfare la mia richiesta.

I tacchi a spillo la rendono più alta di me, pantaloni attillati in finta pelle nero lucido, una giacca bianca che a malapena copre il seno sporgente e quasi nudo. Il volto rotondo, il naso piccolo un po' all'insù. Capelli intirizziti, nero corvino.

Io immobile, lei si avvicina e con un cenno mi invita a seguirla, lo faccio attirato dalla forza magnetica della scoperta (ed anche dal suo bel fisico). Avvicinandoci al lato della strada uno di quegli uomini che scrutano appoggiati al muro ci raggiunge; mi squadra con aria di minaccia e capisco che dev'essere qualcosa tipo un pappone e comunque la sua maschera truce è un buon deterrente, almeno per me.

La donna tira fuori dalla borsetta un mazzo di chiavi e scompare rapidamente dietro al portone più vicino a noi, io devo aspettare non so che cosa in compagnia di quest'individuo.

La sua maschera è quella fissa di un personaggio che fa il cattivo per forza. Capelli a spazzola, biondo, occhi grigi, fisico prestante, l'orecchino, un anello alla mano destra. Impenetrabile.

Controlla il cellulare, sbirciando vedo l'immagine di un neonato messa come sfondo. Il figlio avuto con una di queste donne, quindi necessariamente il figlio della maschera, oppure è la ragione per cui indossa la maschera, la causa che ha generato il personaggio, o forse è tutta un'altra cosa; il fatto è che un particolare ad un tratto complica tutto. Non è l'immagine strappalacrime di un bambino, è una falla in una corazza d'acciaio.

Le scale in marmo sono sudice, sgorate di ruggine un po' dappertutto, l'aria è la stessa da decenni, rimasta chiusa dentro quando fu edificato il palazzo. La vernice turchese della gabbia dell'ascensore cade a pezzi.

Salendo le scale l'aria si fa sempre più stagnante e la luce rimane sempre poca. Tre piani di scale, poi l'uomo senza preavviso si ferma e con una chiave apre la porta che ha davanti poi un gesto fatto con il palmo della mano rivolto verso l'alto mi invita ad entrare.

La porta si chiude, sono solo io in un piccolo ingresso angusto e spoglio, uno spazio fra due porte con l'atmosfera condizionata dal deodorante per ambienti; il parquet coperto da una patina lattiginosa, è la la polvere che è entrata a far parte del legno, le pareti sono nude e bianche.

Giro la maniglia dell'altra porta.

Mi invade una vampata di profumo dolce, forse patchouli, si spalanca una stanza spaziosa.

Il suolo è completamente coperto da tappeti accavallati l'uno sull'altro, le pareti da dei drappi di stoffa pesante che si uniscono al centro del soffitto a forma di pagoda, da questo punto pende un lume in vetro giallo che illuminando alza la temperatura dei colori in questa tenda dentro la stanza. Al centro, una composizione di cuscini in pelle, sopra seduta, nuda, la donna che era entrata nel palazzo prima di me.

Un corpo perfetto, lucido d'olio, depilato di fresco, incredibilmente intatto, senza segni del mestiere. Con una piccola farfalla posata sull'inguine.

Tolte le scarpe appoggio i piedi nudi sul tappeto e velocemente mi spoglio facendo dei vestiti una pallina appoggiata a terra. Lei si muove sorridendo appena di circostanza, appoggia la schiena e adagiandosi sul resto dei cuscini con le gambe aperte mi invita a passare per l'ultima porta di questo palazzo.

Una flusso fresco dalla finestrina affacciata sulla Sierra de Guadarrama, i monti brulli spuntano da dietro un blocco di edilizia popolare, adesso appena rosati, si preparano al tramonto. L'aria è arroventata e questo refrigerio vitale incontrando il corpo nudo fa accapponare la pelle, rovente anch'essa.

I corpi sono due, aggrovigliati su di un letto singolo che ai piedi dell'unica finestra occupa quasi tutta la piccola stanza.

Scostando un suo braccio ed una gamba, mi tiro su mettendomi a sedere sul letto. Lei con occhi appena aperti e vitrei, fissa il vuoto in dormiveglia con i capelli sparsi sul volto che castani riflettono quest'ultimo sole.

Mi alzo del tutto, in piedi nel piccolo spazio fra il letto e la scrivania dove prendo una sigaretta dal pacchetto che c'è lì sopra.

Posando lo sguardo su questo corpo che conosco bene, vedo i suoi occhi socchiusi e velati di sonno incrociare i miei con un'occhiata.

Ecco che il neo subito sotto la bocca si muove, quella bocca marcata si distende, un sorriso rivolto a me, meglio di qualsiasi parola. Una lezione di serenità, un lezione di gratitudine.

Esco dalla stanza, in salotto c'è disordine, sui divani dei vestiti e qualche libro sparsi. Al posto della parete, in fondo, una grande finestra, dal sesto piano si vedono molte cose. Fumo affacciato alla finestra guardando la massa urbana senza fine. La luce a quest'ora tinge ogni palazzo di un colore diverso.

Lorenzo Frittelli

THREE

FACES

Tratto da

Madrid,

Racconto illustrato autoubblicato nel gennaio 2013 da

TLF - Tommaso Lanza & Lorenzo Frittelli

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