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Viaggi d'altro tipo - Dario Bosio: un nuovo modo di raccontare con le immagini

Oggi siamo orgogliosi di presentarvi una tra le più promettenti nuove leve della fotografia italiana ed internazionale: Dario Bosio. Fondatore del collettivo internazionale di fotografia The PanAut Collective e membro di rilievo del nucleo redazionale della rivista ABOUT Photography – una delle più cliccate al mondo – , è uno dei principali promotori, a livello italiano, di un cambio d'approccio nella concezione della fotografia d'indagine attuale. Dopo aver prodotto reportage in India, Brasile e Bosnia, la sua attenzione si è spostata nuovamente al nostro paese, dove ha recentemente pubblicato il lavoro “On the Identity of a Tomato Picker”, una toccante analisi della situazione lavorativa dei braccianti nei campi di pomodori del Sud Italia. Ma scopriamo di più sulla sua visione attraverso le parole del diretto interessato.

Facciamo le presentazioni: chi sei e che tipo di formazione hai avuto? Sono Dario, ho 26 anni e faccio il fotografo. Dopo aver studiato giornalismo all'Università di Firenze, ho frequentato per due anni la Danish School of Journalism ad Aarhus, in Danimarca.

Ho svolto poi un tirocinio ad Amsterdam, alla Noor Images. L'ultimo anno l'ho passato a Roma, dove ho lavorato come assistente di Francesco Zizola nella galleria 10b Photography. Al momento invece vivo a Napoli, dove seguo i miei progetti personali.

A proposito di progetti personali, parlaci della tua ultima esperienza.

Il mio ultimo lavoro s'intitola “On the Identity of a Tomato Picker”. Ad Agosto sono stato a Rignano Garganico, nella pianura attorno a Foggia, in quello che è conosciuto come il Grand Ghetto. E' sostanzialmente una baraccopoli di case di cartone costruite con corda, fango e legno, dove durante la stagione estiva di raccolta dei pomodori, vivono circa 1500 perone: braccianti africani dell'Ovest sub-sahariano, principalmente dal Senegal, dal Gambia e dal Burkina-Faso.

Volevo documentare le durissime condizioni di vita in cui queste persone sono costrette a vivere. Si tratta di gente che lavora a 4 Euro per ogni cassone da duecento chili che riescono a riempire. A causa delle logiche del “caporalato”, sono costretti a dare parte del loro guadagno giornaliero ai cosiddetti “capi neri” che vivono nel campo, anche loro africani che, siccome posseggono una macchina, si fanno pagare per trasportare i lavoratori ai campi.

Le condizioni di vita nel ghetto sono durissime. Le persone vivono senza acqua corrente e senza elettricità. Solo alcuni hanno dei generatori elettrogeni a benzina con cui possono produrre un ridotto quantitativo di energia elettrica per tenere aperte le attività, perché c'è da dire che nel ghetto c sono anche diversi bar e bordelli. Si tratta infatti di una vera e propria città, non segnata sulle mappe.

Il tuo lavoro si presenta in una maniera non convenzionale, parlaci dei fattori che ti hanno spinto ad usare questo specifico stile narrativo.

Sono andato laggiù a documentare questa situazione, ma una volta lì mi sono trovato di fronte un rifiuto molto potente, da parte delle persone con cui parlavo, della propria identità visuale. Ovvero, parlando con loro veniva fuori molto spesso il concetto del “tu non puoi farmi delle foto, perché quello che vedi non è ciò che io sono”. Parlando con molti di loro ho trovato studenti, artisti, professori, ma anche idraulici o elettricisti che, a causa della guerra o della povertà, o semplicemente per cercare migliori opportunità in Europa, nella terra promessa europea, queste persone hanno lasciato i propri paesi, affrontando un viaggio durissimo, in molti casi passando anche per la guerra in Libia prima di approdare sulle nostre coste, risparmiando per anni. E adesso, una volta arrivati in Europa, si trovano a lavorare in condizioni di schiavitù, sostanzialmente. Sporchi di fango, con le mani sanguinanti, in capanne senza acqua né elettricità, loro dicevano “io non mi riconosco nella mia immagine”.

Io ho voluto rispettare questa loro volontà di non essere rappresentati e soprattutto senza rappresentare le loro durissime condizioni di vita, cercando una modo alternativo per lavorare e raccontare la loro storia, in modo che potesse informare senza far ricorso a quelle immagini, ormai stereotipate, dell'immigrato africano che soffre. Questo perché non sarebbe stato giusto nei loro confronti e non sarebbe stato, secondo me, utile ai fini comunicativi reiterare ulteriormente un tipo di immagine abusata. Quindi ho lavorato su questa storia in maniera differente, trovando un metodo narrativo che suscitasse la curiosità dello spettatore, che lo attivasse alla ricerca di informazioni, piuttosto che servirle su un piatto, già pronte.

Il tuo lavoro non è passato inosservato: parlaci delle pubblicazioni e delle esposizioni del reportage.

Il lavoro è stato selezionato tra gli Editor's Pick di LensCulture, che è una piattaforma dedicata alla fotografia contemporanea. Da lì è rimbalzato sui social media, dopodiché le foto sono state notate da Amnesty International, che le ha usate per una pubblicazione su Word Vervolgd, che è il loro magazine olandese. Successivamente è stato selezionato per il Savignano Immagini Festival OFF, in cui è appena stato in mostra. La settimana prossima sarà esposto anche al Festival organizzato dall'Accademia di Belle Arti di Aarhus. Nel mentre è stato pubblicato su alcune riviste di fotografia e sta girando abbastanza. È un bel segnale, perché credo sia la testimonianza che un metodo narrativo alternativo, nella fotografia contemporanea, venga apprezzato.

Da fotografo, non posso che esserne felice.

Per ammirare questo ed altri lavori di Dario, visitate il suo sito personale.

Simone Piccinni THREE FACES

Photo Credits: © Dario Bosio

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