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Claire - Viaggio in Tasmania, Atto IX

Qualche ora dopo il sole rischiara, alto, quella sorta di oasi nel bel mezzo della foresta. Mi sono accomodato sul divano, facendo come se fossi a casa mia; ma non sono in salotto. A circa un centinaio di metri vedo ricominciare a svettare trionfanti i verdi eucalipti, cinti poco più a valle dai vari alberi da frutta della proprietà. Poi gli orti e la stalla, e infine il laghetto, dalla cui riva mi godo comodamente seduto, il panorama. Godo nell’essere sommerso dalla quiete di quell’atmosfera, nel conversare con Claire che è seduta accanto a me, ma soprattutto godo nel gustare la nostra vellutata di verdure cucinata poco prima. È stato tutto molto naturale, senza imbarazzi e senza pretese di genere. Una volta alzati ci siamo diretti dalla sua camera – costruita, tra l’altro, interamente in legno da suo fratello, qualche anno fa – all’abitazione dei suoi genitori, direzione cucina. Anch’essa di legno, la casa è arredata rusticamente con barattoli di conserve, marmellate e chutneys sulle mensole, piogge di trecce d’aglio che pendono dal soffitto incorniciando il soggiorno, e varietà incontabili di frutta e verdura freschissime a ricoprire tavoli e metri quadrati di pavimento. Non vedo alcun televisore nei paraggi, e gli spazi vuoti sono opportunamente riempiti da libri e CD di musica rock o blues. Forse spinto dall’entusiasmo di quella che può essere tranquillamente la mia casa ideale, propongo a Claire di cucinare per il popolo e per la gloria. Lei si fa contagiare, ma prima dobbiamo scegliere assolutamente la colonna sonora d’accompagnamento ai lavori in corso. Mi fa entrare in una stanza piena di dischi e vinili: pare che i vari lettori di musica davanti ai miei occhi siano collegati ad una serie di altoparlanti sparsi per la casa, la quale sta diventando, per i miei gusti, sempre più voluttuosamente perfetta. Mentre stiamo scrupolosamente esaminando i titoli degli album a disposizione, mi cade l’occhio su un disco che occupa un posto preciso nei miei ricordi. Si tratta molto volgarmente del successo principale dei Savage Garden, un onesto gruppo pop australiano che, per i miei standard musicali di fine secolo – avevo sette anni –, ha rasentato il mito. Adoravo tutte le canzoni di quel disco. Dai pezzi pseudo-dance uptempo alle immancabili ballate lente e cantilenate che, piene di autocommiserazione anni ’90, narravano l’epopea dell’amore impossibile per la Beatrice di turno. Comunque sia rimarrà sempre il primo che ho desiderato, avuto, ascoltato con trasporto. Assieme ad una raccolta di Gianni Morandi, ha costituito la base da cui si è raffinata e criticizzata, in seguito, tutta la mia cultura musicale. Insomma un disco che considero con affetto quando mi capita tra le mani. Da buon narcisista nostalgico quale sono, racconto tutta la vicenda a Claire, che all’improvviso si blocca e strabuzza gli occhi: «Un po’ me ne vergogno, ma anche per me è stato il primo!» Grasse risate si sono susseguite dopo un attimo di strano seppur lieve disorientamento. Cinque minuti dopo siamo in cucina a cantare a squarciagola le canzoni, tenendo il conto di quanti “baby” vengono pronunciati dal cantante. «Ora che hai scoperto il mio segreto più grande non mi lasci altra scelta che ucciderti». La giornata è ottima, illuminata da una splendida luce. Uno dei sette tra fratelli e sorelle di Claire viene a farci visita con i suoi tre bambini. Lo saluto e gli offro una scodella della mia prelibata pietanza. Lui di tutta risposta, per non essere scortese, mi offre una canna già rollata e pronta all’uso, che aggiunta alle due che Claire aveva smezzato con me qualche ora prima, potrebbe essermi socialmente fatale. Proprio da quel comodissimo divano in riva al lago, con la bocca aperta e gli occhi a fessura, ammiro la natura, riflettendo sugli eventi della giornata, di cui comincio a non capire più niente. Con la scodella vuota ancora sulle gambe mi volto indietro per dare un’occhiata alle inarrestabili forze della natura: a quanto pare non contenti di non essersi fermati un attimo su e giù per l’immenso prato a loro disposizione, i bambini adesso hanno pensato bene di cominciare a fare a passaggi con il mio cellulare. «Sono proprio dei ritratti della felicità... Quanti anni hanno?» Claire ci pensa un po’: «Hanno tre anni, sono nati a poche settimane di distanza». Dopo un lungo e complesso calcolo matematico, degenerato quasi nel tilt da surriscaldamento del mio apparato cerebrale, riesco a balbettare come una cosa del genere sia contro natura e perciò in qualche modo sbagliata, oltre che inconcepibile. E diamine, dovrebbe essere illecito fare questi sforzi psichici quando si è fatti. Lei ride. A quanto pare, quel genio di suo fratello ha messo incinta nella stessa settimana due diverse ragazze, con cui usciva separatamente. I frutti dei rispettivi amori sono stati una femminuccia da una parte e due gemellini maschi dall’altra. Tralascio volentieri discorsi etici di genere, non essendo in grado di tracciare la scomoda linea che separa il giusto e lo sbagliato, quindi voglio solo concentrarmi sui fatti: quei bambini sono felici, e non sembrano affatto covare le conseguenze classiche della devastazione dei rapporti adulti. A dire il vero non mi capita spesso di vedere bambini con due genitori dal rapporto duraturo così vitali e spensierati. Forse allora davvero non importa se vieni cresciuto dalla mamma o dallo zio o da una coppia di stambecchi dello stesso sesso, se conta più l’affetto che la cornice familiare. Rivelazioni oracolari a parte, verso sera Claire decide che l’indomani mi avrebbe portato a The Edge of the World. Avremmo passato la notte nel suo shack – letteralmente dall’inglese: baracca –: una sorta di ritiro amoroso prima di passare a fare visita al suo amico Sam e lasciarci ai propri destini. Questo Sam vive a Stanley, un incredibile paesino della costa nord che giace letteralmente ai piedi di un gigantesco promontorio a forma di mezza noce – da cui il nome The Nut –. Come in seguito verificherò di persona, si tratta di un tipo abbastanza particolare; tanto per cominciare ha bisogno di 9 sacchi di mele, per fare esattamente cosa non lo sa bene nemmeno lei. La mattina dopo, prima di partire, aiuto Claire a cogliere la frutta dai suoi alberi, carichiamo in macchina i sacchi e ci addentriamo nuovamente nella Tarkine Forest. Il cielo sta già accenando ad arrossire quando arriviamo. Non so bene come definire la sorta di residenza delle vacanze che mi trovo davanti. Oltre ad essere eufemisticamente spartana e, neanche a dirlo, interamente in legno, il complesso si ubica rigorosamente nelle fitte frasche marittime circondate da sabbia bianca e fine. Dentro c’è poco meno dell’attrezzatura di necessità primaria. C’è una stufa, un frigo, un tavolo e, al piano di sopra, facilmente raggiungibile tramite la scaletta di legno, il materasso su cui dormire. Del bagno non ce n’è bisogno: c’è tutta una foresta da sfruttare come latrina. L’oceano è vicino, e ci incamminiamo verso il suo rumore di onde infrante. Quella è la stessa West Coast brulla, spigolosa, martoriata dai venti che avevo raggiunto con Jürgen qualche settimana prima. Gli scogli sembrano stridere da quell’acqua mossa qualche decina di migliaia di chilometri più lontano, verso la palla rossa del tramonto che sta annegando all’orizzonte. The Edge of the World, Il Confine del Mondo: più che un limite geografico suona come un concetto astratto a cui io, in questo preciso momento della mia vita, sto cercando di tendere. Mi trovo in culo al mondo lontano anni luce da tutto e da tutti e, non mi scoccia assolutamente dirlo, ci sto veramente bene. Ritorniamo allo shack. Il resto della serata si consuma via tra una lauta cena a base di riso e una pesante perdizione scaturita da canne, superalcolici, musica tribale che riecheggia dagli immancabili altoparlanti e amplessi sessuali misti a danze menadiche. “Sono alla fine del mondo”, penso, “anche se stasera mi sono giocato il Paradiso, andrò all’Inferno contento, e molto volentieri”. Anche perché, geograficamente, non penso sia molto lontano.

Gianluca Bindi THREE FACES

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