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Es muss sein - Viaggio in Germania

Vorrei che la difficoltà nel disfare la valigia fosse la stessa difficoltà pragmatica che ho provato nel farla, una settimana fa.

Più che una sacca, la mia compagna di viaggio pare un baule polveroso, di quelli che ritrovi nelle cantine dei nonni materni durante il periodo natalizio. Apro la cerniera e subito nell’aria si libera un odore di fumo imponente che è entrato in quel piccolo appartamento di legno chiaro, spia di una piazza concentrica incorniciata da mattoni bordeaux e tetti così a punta da sembrare ambiziosi.

I vestiti inutilizzati –e dunque puliti e dunque inutili- sono stati privati di quel profumo di casa che spesso mi aiuta a ricordare quale sia il mio posto effettivo. Il sacchetto della roba sporca è chiuso grazie ad un nodo insicuro, che sfilo velocemente: ne escono profumi di cibo insano e istinti di fuga repressi, maglioni stropicciati e jeans e calze e magliette abbracciate tra di loro. Il pigiama con ancora le mie fedelissime calze strette in fondo ai piedi. Non si vogliono proprio staccare.

Uso il rosa per nascondere l’arrivo, pareti bianche che coprono il moto di pensieri goliardici e gesti incompiuti che scatenano buchi neri del mio passato. Uso il bianco per focalizzare luci soffuse, calici curiosi e risa forse un po’ troppo rumorose che però accendono il buio in lingue sconosciute e universali. Uso il blu per una doccia bollente, un libro conosciuto riletto in fretta. Uso il blu per dipingere i sedili di un treno che è ancora troppo vicino e mi alita in faccia la libertà. "E' questa la tua direzione. Non ti fermare."

Vedo l’ordine, il silenzio, la soddisfazione, la superficialità come causa di un mondo incastrato tra le mani. Vedo una città che marcia caotica in macchie gotiche che hanno visto morire persone e che le hanno osservate mentre si svuotavano. Vedo due occhi verdi come icona di allegria ed energia, centro nevralgico di una straniera del mondo che sembra la mia caricatura. “Ognuno ci lascia qualcosa di sé” direbbe Kundera. Vedo un fiume che penetra il tutto in modo sensuale e consapevole, sfiorando i bordi di marciapiedi avvolti in ciottoli tonalità pastello.

"Non ti fermare. Non ti adagiare. Assorbi tutto quello che puoi." Non voglio rivendicare la mia indipendenza. Voglio essere quello che dentro ero senza la catena fusa di cera e di metallo. Uso il grigio per impugnare un ciondolo. Sbircio dalla finestra e la neve mi provoca, precipitando silenziosa, nascondendo i segreti che tentennano sull’uscio della porta.

Uso il grigio per sospirare in una condizione costante di contrasto apparente. “Ti conosco così bene che ognuna delle tue reazioni l’ho prevista e poi l’ho vista fastidiosamente capitare.” Uso il verde per stringere la mano a un militare che mi ha portato di forza a Sanremo, tra disperazione, rabbia, rassegnazione. Lo stesso militare che è stato il cliché dello straniero che conosce l’Italia per Berlusconi, per la Mafia e per la Pizza. Strade incolumi, solidarietà. Giustizia. Organizzazione, sicurezza. L’antitesi delle mie radici.

Vedo il verde spogliato della sua funzione, che macchia il pavimento e mi rimprovera. Uso il rosso per guardarmi allo specchio e ritrovarmi. Uso il rosso per capire che l’errore esiste ma che è più forte la mia personalità. Uso il rosso perché c’è sempre un dopo. Uso il rosso per colorare la copertina della mia storia –perché è solo una storia. Nel rosso c’è un’emotività che crolla, c’è la striscia di un treno che accelera e mi insegna che c’è un Mondo fuori che mi sta solo aspettando. Nel rosso c’è una pasta cucinata e criticata, come da copione. C’è il cappotto di passanti che passeggiano distratti e per niente incuriositi dalla Martina straniera che non capisce, come se mi integrassi con loro meglio che con me stessa. Nel rosso c’è un legame che si incrocia su sé stesso e cambia forma a ritmo di passi ovattati e adagiati sulla loro traiettoria. Forte? Debole? Flessione.

Uso l’arancione per incartare il ritorno, in bilico su parole icastiche e occhi sfuggenti e raccolti in sé stessi. Il tempo che come è arrivato se n’è andato mi accarezza la testa e mi tiene per mano. - "Guarda cosa c’è fuori. Guarda le differenze, le somiglianze, i profumi, i colori, i movimenti. Te ne ho mostrati alcuni affinché tu potessi capire che la perla dell’ostrica è rara se rotola via e trattiene il respiro. Se segue le correnti e si dimentica del guscio". Non so se rispondergli con riconoscenza oppure se ignorarlo per aspettare di vederlo passare ancora un momento. Mi capita spesso di odiare le parole e di voler trascurare il loro significato. A volte vorrei che la parola “bianco” rappresentasse un braccio. Stasera vorrei che il nome “foto” fosse “condividere”.

No, non voglio parlare col tempo: intraprenderemmo un discorso che mi porterebbe a riflettere tra me e me. E poi lui se ne andrebbe. Uso il nero per buttare la cenere nella spazzatura e posare il sacchetto d’un lato. Guardo la Germania precipitare alle mie spalle, ne vedo i colori mischiarsi fino a deformare i contorni del paesaggio. Quand’ero bambina, in auto, usavo le dita della mano dal finestrino per essere una “superdonna”, fingendo di calpestare le case, i cassonetti, i pali della luce. Adesso, mentre questa settimana resta indietro, guardo la stessa mano e vorrei significasse “obiettivo”.

Non ho ancora capito di essere tornata che già la pancia si veste di vuoto e mi implora di alzare la testa e prepararmi a partire.

Ha fame del Mondo.

Martina Calista

THREE

FACES

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