Avete presente un viaggio lungo sette ore, a bordo di un autobus di latta, in balia delle euforie alcoliche di un’autista, in mezzo alla pioggia, in mezzo alla nebbia e in preda al panico? Se mi avete seguita fino ad oggi, ce lo avete presente e per presunta grazia divina il viaggio che mi appresto a raccontarvi non ha assolutamente niente a che fare con le suddette fatiche.
Stiamo per lasciare la regione del Chiapas, la stiamo lasciando come quando si conclude una storia d’amore senza che l’amore sia del tutto finito. “Ti amo ma non posso restare!”. Quando pronunciamo queste parole non sappiamo bene a chi stiamo mentendo, se a noi stessi, al nostro amore o a tutti e due, ma soprattutto - quando l’unione è intesa fra due persone - non sappiamo quale sia la vera menzogna: il sentimento o il desiderio di andar via. In questo caso lo sapevamo benissimo, l’affetto verso il Chiapas era sincero mentre il nostro bisogno di allontanarsi era una bugia, qualcosa che non esisteva, che ci eravamo inventate. Potevamo restare ancora, potevamo vedere come sarebbe andata a finire, noi in mezzo ad un grande abbraccio. Ci sarebbe stato solo quello, soltanto pace e silenzio. Non è forse ciò di cui tutti abbiamo bisogno? No. Il nostro fabbisogno emozionale quotidiano necessita di urgenze e complicazioni che ci portano lontano dagli affetti sinceri. L’abbandono non esiste, è un artificio umano.“Ti amo ma non posso restare!” Ho mentito al Chiapas come ho mentito ad una donna. Francesca forse pensava la stessa cosa, glielo leggevo negli occhi che quella partenza era pesante come un abbandono. “Siamo due bugiarde!”. Lo dico ad alta voce e Francesca non batte ciglio, al contrario china il capo in una smorfia rassegnata, ha capito quello che volevo dire o forse è l’una di notte e noi stiamo bivaccando sul cemento in attesa dell’autobus.
Come dicevo, stiamo abbandonando Palenque e tutto il Chiapas, la tappa successiva si trova nella regione di Quintana-Roo, uno degli stati messicani più piccoli. Tulùm ne è la capitale ed è li che siamo dirette. Eli ci aveva descritto questo posto con la luce negli occhi, una reazione che forse appartiene a chi è straniero in una nuova terra, a chi per la prima volta vede un paesaggio inconsueto. Eli ne era innamorata. Aveva detto che tre giorni non ci sarebbero mai bastati, che avremmo sicuramente prolungato il soggiorno e che alla fine Tulum ci sarebbe rimasta nel cuore, proprio come a lei. L’autobus arriva, abbiamo cambiato compagnia sperando di non ripetere l’incubo della scorsa volta e infatti appena salite a bordo ci accorgiamo del salto di qualità: ne risente il nostro orgoglio di impavide viaggiatrici ma ci guadagniamo in quanto a salute fisica e mentale.
Per la prima volta viaggiamo in compagnia di altri giovani turiste, ci sono ragazze molto bionde probabilmente tedesche, ragazze molto ubriache probabilmente inglesi e ragazze molto curiose, quelle siamo noi. Gli italiani hanno questa predisposizione all’ascolto non richiesto delle conversazioni altrui, soprattutto sui mezzi di trasporto. Non è soltanto curiosità ma è piuttosto uno stato mentale, un’attitudine voyeurista delle nostre sinapsi che a un certo punto interrompono ogni comunicazione con il nostro tessuto nervoso, lasciandoci in uno stato di semi epilessia linguistica fatta di bisbiglii e suoni incomprensibili, i quali terminano solo con il sopraggiungere del sonno.
Francesca comincia: “Aò ma che so tutte donne? Dov’è che stanno l’omini, se li so magnati!”. Poi proseguiamo con l’ascolto didattico per riconoscere la radice linguistica: “Ma che te capisci na parola? E pensà che mo’ ce vivo io a Londra ma a me sta roba mica me pare inglese.” Alcune deduzioni sull’età: “Ma che vent’anni! Pare mi nonna!”. E per finire il giudizio estetico: “Lo vedi che nun c’hanno per nulla stile, me sembrano un branco de disperate..ma poi er sole le scansa a ste poverelle?”.
La recensione stilistica nel suo senso più esteta si conclude dopo circa un’oretta, ne restano altre sei. Per fortuna abbiamo del cibo e quella bottiglia di Mezcal senza il verme. Il viaggio procede tranquillo, riesco ad inviare qualche messaggio a casa, tiro fuori dal portafoglio un disegno stampato e appiccicato su un cartoncino, è una faccia brutta che sorride in maniera ridicola, di quelle che girano sul web. Me lo ha dato la mia ragazza prima di partire, qualcosa per farmi ridere se ne avessi avuto bisogno, ma io lo stavo guardando per attingere a un altro tipo di sentimento, per trovare la malinconia, una specie di saudade. Così riesco ad impiagare un’altra ora buona, pensando a come lei si sarebbe stancata ad affrontare un simile itinerario, perché è coraggiosa ma di un coraggio che non impiega lo sforzo fisico. Penso che è fragile di stomaco, che ha la pelle troppo bianca. Dove avrebbe messo le lenti a contatto, e se le avesse perse? Il cibo sarebbe stato troppo piccante ma avrei trovato una soluzione. I dolori mestruali, i capelli sciupati, gli occhi stanchi. Gli occhi. Forse, a un certo punto, mi sarei sentita in colpa per averla trascinata nella mia natura selvaggia, portandola via dalla sua natura urbana, le avrei chiesto scusa e lei mi avrebbe detto che andava tutto bene, che non era colpa mia e mi avrebbe preso in giro per essere così paranoica. Mi avrebbe messo la mano sulla faccia, con una carezza tanto sgarbata quanto appassionata, e io mi sarei sentita bene. Ero stata forse troppo egoista a voler essere testimone di tutta quella bellezza senza condividerla con lei? La bellezza ha bisogno di due giudici, non esiste da sola. Mi ero sentita così importante da poter guardare da sola una cosa bella. Si certo avevo Francesca, ma io e lei non formavano una giuria vera e propria. La persona che amiamo è la nostra seconda opinione sul mondo, l’opinione che conta ovviamente. Avevo lasciato a casa i miei altri occhi, la notte prima di partire le avevo detto che era bella e che non avrei voluto vedere niente senza di lei. Mi aveva zittita sminuendo le mie ansie, sarebbe andato tutto bene mi diceva e io stavo in silenzio fingendo di non sentirmi già sola.
Passa la terza ora e ancora non dormiamo. Fuori non c’è nulla, sono le tre ed è ancora buio. Non vediamo villaggi, non ci sono case, non ci sono macchine. Siamo una sfera di metallo che rotola dentro un buco nero senza fine. Stiamo attraversando lo stato del Campeche, l’antica sede Maya. Non ci sono molti villaggi, sembra un deserto nero. Le nostre compagne di viaggio ubriache si sono addormentate, restano le bionde tedesche sveglie a controllare le mappe con le luci dei telefonini. Mi restano ancora quattro ore di saudade, troppe. Francesca dorme e io la seguo a ruota.
Ci svegliamo su una specie di lunga strada statale che costeggia alcuni parchi avventura. Ci sono cartelli giganti che pubblicizzano escursioni nelle riserve, immersioni con le tartarughe, lezioni di kitesurf e di snorkeling. All’improvviso è giorno, ci sono tracce inconfondibili di esseri umani, ci sono palazzi di vetro e hotel che sembrano città. Arriviamo ad un grande incrocio dove le strade si fanno più piccole, lasciamo alle nostre spalle quelle fastidiose geometrie urbane fino a che non raggiungiamo una piccola stazione di autobus. Tulum ci accoglie di mattina presto, non ci rendiamo conto di essere arrivate fino a che l’autista non ce lo grida in faccia. La prima impressione appena uscite dalla fermata: qua ci sono troppe persone. Mi vengono in mente una serie infinita di luoghi che per qualche motivo si rassomigliano tra loro: la Barceloneta (ma da qua non si vede la spiaggia), un vicolo di Brighton (ma qua non ci sono salite), uno scorcio di Saint Marie dè la Mer (ma qua ci sono meno francesi). Ho come l’impressione di essermi già fermata da queste parti e non mi piace. Il piccolo segmento di spazio che il mio angolo di campo visivo riesce ad inquadrare mi provoca un fastidio quasi fisico, nauseante. Ascolto le voci, riconosco gli accenti di tutto il mondo, le parole mi girano intorno come mosche arrivate da ogni sputo di spazio terrestre, da ogni buco nascosto di tutte le profane abitazioni umane, da tutta l’immondizia della storia. Quell’amore che avevo lasciato, quel verde denso a cui avevo detto ti amo un attimo prima di abbandonarlo, adesso mi perseguitava, mi mostrava la conseguenza del mio rifiuto che si traduceva nella mia completa assenza di empatia umana. Ci metto qualche minuto per fare mente locale e per liberami dalle mosche. Non abbiamo un posto dove andare, nessuna indicazione, nessun suggerimento. Dalla nostra parte di strada ci sono bar, negozi di souvenir e qualche piccolo albergo. Dall’altra parte il novantanove percento delle attività sono ristoranti. Da qua il mare non si vede, non lo abbiamo ancora mai visto.
Troviamo il backpackers hostel, dal nome vorrebbe suggerire ospitalità per i pellegrini stanchi, dotati di zaini e pesanti fardelli. Chiediamo la camera alla giovane receptionist che ci guida verso il check-in fai da te: scegliamo la camera da un computer, inseriamo i nostri dati, acquistiamo la colazione, prenotiamo i cuscini per la stanza che evidentemente non sono in dotazione, così come le coperte che dobbiamo passare a ritirare in un altro hotel. Ci accompagnano dall’altra parte della strada, in una piccola traversa scorgiamo l’insegna del nostro ostello. Non è nemmeno qua. Passiamo oltre ed arriviamo ad un cancello blu, accanto al nostro ingresso c’è uno studio di tatuatori, il primo che vedo da quando siamo arrivate. Saliamo al secondo piano dove ci viene aperta la porta della nostra camera a tre letti matrimoniali. “Aò ma qua ce famo n’orgia!”. Francesca è incontenibile, talmente tanto felice che decide di festeggiare con il nostro Mezcal senza verme. “Dai famose du botte e poi annamo ar mare. Tiè bevi te prima!”. Sono felicissima anche io, devo andare in bagno da una vita ma perché no, famose du botte alle nove di mattina. Ci appoggiamo al lavandino attaccato alla parete come fosse il bancone di un bar. Tiro giù il primo sorso, il secondo è più abbondante per bloccare il conato di vomito. “Fra, finiscila per piacere, non voglio manco sentire l’odore di sta roba.” Le passo la bottiglia scura che finalmente si è alleggerita. Francesca ci si attacca come un neonato al biberon. La guardo mentre le si gonfiano le tempie e noto uno strano cambio di espressione sul suo viso. Piega la testa lentamente, si volta verso di me e io so già cosa vuol dire ma ha la bocca piena e io mi allontano. Il lavandino è davanti a lei per fortuna. “Li mortacci tua e de tutto er Messico ma che schifo!” Ecco che adesso il verme giace sulla superficie bianca dal lavabo, il contrasto con la ceramica lo fa apparire ancora più giallo e gonfio di alcol. Francesca sputa a caso in tutta la camera e si lava parti del corpo senza un criterio preciso. Il verme è ancora nudo sulla ceramica. Sono le nove di mattina, la camera puzza di tequila e abbiamo già un prodotto un cadavere. Così comincia l’avventura a Tulum.
... Continua ...
Benedetta Bendinelli
THREE
FACES