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I quattro cavalieri dell'Apocalisse - Viaggio in Messico, Atto IX

Tra il bar dove ci eravamo sedute e il piccolo villaggio di fronte ci corre circa un centinaio di metri e qualche secolo di colonialismo. Lascio alle mie spalle due americani a trattare con un negoziante nativo, chiedono lo sconto per una maschera di legno che raffigura un guerriero azteco: un’immagine grottesca simile a quella del turista che fotografa gli animali allo zoo. Ho intravisto due bambini che giocano fuori casa, ci sono due donne dietro di loro che stendono i panni ad asciugare. Mi avvicino lentamente, non tanto per la paura o il rispetto quanto per dar tempo a me stessa di abbandonare l’espressione sciocca che sapevo di avere in quel momento. Sul piazzale si affaccia soltanto una capanna fatta di sassi e scarti legno, tutte le altre abitazioni si nascondono dietro tra le piante, le amache e i vestiti appesi ad asciugare proteggono il villaggio come una fortezza. Accanto alla capanna hanno costruito una specie di attrazione turistica, non riesco a capire bene di che cosa si tratta ma l’uomo che deve esserne il custode mi avvicina e mi chiede se voglio provare. Mi mostra un albero altissimo sulla quale è fissata una corda, sembra un bungee jumping artigianale, temendo il vuoto e in questo particolare caso lo schianto di faccia sulla ghiaia, declino gentilmente l’offerta. Nel frattempo noto che i due bambini che fino a poco fa si rincorrevano adesso si sono fermati accanto a me e fissano la macchina fotografica. La più grande si avvicina e mi chiede di abbassarmi, mi metto in ginocchio e aspetto che dica qualcosa. “Yo soy Anna y él Cencio”. Gli americani che chiedono lo sconto. “Seis gringos”? Mi toccano la faccia e mi prendono in giro. “Cual es tu nombre?” Gli americani che chiedono lo sconto. “Martin ven aqui!” Anna a quanto pare è il capo, è l’unica femmina e ha la situazione sotto controllo, richiama attorno a se il suo piccolo esercito e invita tutti ad osservarmi. Le donne che sistemano gli abiti ad asciugare mi salutano con la mano. Mi accorgo di essere in casa loro e di non aver chiesto il permesso per entrare. “Hola!” Adesso i bambini sono in quattro a sorridermi, è una mossa scorretta perché cado prigioniera immediatamente. “Podemos hacer una foto?” Gli americani che chiedono lo sconto. “Venga y vea nuestro perro”. Gli americani che chiedono lo sconto. Continuo a recitare quest’immagine nella mia testa come fosse un mantra. Anna, Cencio, Martin e Miri se ne stanno li davanti a me, i quattro cavalieri dell’apocalisse vestiti con la maglietta di super mario, senza scarpe e con il moccio al naso. I cavalieri alti meno di un metro che mi dicono che il mio mondo è finito, che non esiste più nulla, che non vi è più speranza o sentimento di essa. Il mio mondo, quello che ho lasciato a chiedere lo sconto per una maschera da guerriero, quel mondo non esiste, è un impero affogato nelle proprie rovine, sepolto sotto le sue conquiste. Ho il magone bloccato tra il cuore e la trachea, se ingoio la saliva piena di polvere mando giù gli americani che chiedono lo sconto, li assimilo nel mio organismo. Mi viene da sputare, da piangere e da vomitare. Trattengo la saliva ma non il pianto. Mi hanno portato il loro cane, un batuffolo spelacchiato grigio che gironzola su stesso con la lingua di fuori. Anna ordina agli altri di sedersi sopra un muretto. Cencio, il più piccolo non ci riesce e mi chiede di prenderlo in braccio. Gli altri si azzuffano per la mia macchina fotografica che io nel frattempo avevo completamente dimenticato. Mi prendono per mano e mi portano dalle due donne sedute poco lontano da noi. Mi accorgo che sono molto giovani e chiedo se sono le mamme dei bambini. Parlano uno spagnolo duro che ha molto poco del suono latino a cui siamo abituati. Mi siedo insieme a loro, non parliamo, non succede niente, i bambini tirano la coda al cane spelacchiato, mi offrono una lattina di coca cola. Gli americani che chiedono lo sconto.

Sono passati cento metri, qualche secolo di colonialismo e un paio d’ore buone da quando abbiamo fatto ritorno dalla piramide. Non avevo mollato lo sguardo dai quattro cavalieri nemmeno per un attimo fin quando una ventata di polvere alle mie spalle mi risveglia dal quel sogno lucido. “Cazzo Francesca!” Di nuovo il magone. Mi volto e vedo la sua figura magra dimenarsi come un’anguilla, mi corre prima incontro poi fa per fermare l’autobus, ci riesce ma quando s’incammina verso di me l’autobus parte di nuovo facendola sparire in una nuvola arancione. Ancora non riesco ad alzarmi. Anna si è accorta del mio rapido cambio d’espressione, mentre gli altri giocano e si strattonato lei mi guarda e chiede se devo andarmene. “Adonde vas?” Rispondo che devo tornare a casa e a quel punto tutti si fermano curiosi di sapere dove sia la mia casa. “Seis de America?”. Rispondo di no senza specificare, penso per loro sia abbastanza rincuorante sapere che non sono una gringos. A quel punto mi chiedono di fare la cosa che più mi spaventa al mondo, mi chiedono di restare. Ho di nuovo il magone sotto la lingua, gli americani che chiedono lo sconto,il mondo che è finito e un ti amo sussurrato, ti amo ma non posso restare. Cencio mi butta le braccia al collo, ha capito che me ne sto andando ma non è la fine del mondo. “Manana vuelves aqui?” Un’altra bugia. Il magone mi sta soffocando. Ti amo ma non posso restare. Ho sperato davvero che il mondo finisse, in quel momento ho desiderato con tutta me stessa che intorno a noi si aprisse una voragine talmente grande da inghiottire anche il cielo, ho desiderato di vivere molto o di morire subito. Mi giro di nuovo e vedo Francesca con le braccia larghe e sollevate, non riesco a definire la sua espressione ma so già quello che mi aspetta. Mi alzo colpevole e bugiarda, prometto di tornare. Metto il piede oltre la soglia immaginaria del villaggio, faccio un passo e non mi volto più.

“Ma che te sei magnata aò! Ma tu sta de fori ma debbrutto proprio!”. Non ci provo nemmeno a dare una spiegazione, dovrei tirar fuori gli americani che chiedono lo sconto ma so che perderei in partenza. “Mo che famo? Quello era l’ultimo per Tulum.” Provo a calmarla dicendo che possiamo farcela a piedi. “Ma che sei de fori sul serio.” Ovviamente non abbiamo una mappa. Tiro fuori il cellulare sperando che possa servire a qualcosa. “Fra ma ti potevi dare una svegliata cazzo, dovevi venire a chiamarmi.” Incolparsi a vicenda in questi casi è utile quanto stringersi la mano in chiesa: non porta a nessuna vera pace. Dobbiamo trovare una soluzione perché la strada del ritorno non è semplice e intorno a noi non vediamo nessun mezzo. Torniamo al bar dove ci eravamo sistemate, ci dicono che tutti abitano li, anche il personale della biglietteria e che nessuno di loro ha una macchina per spostarsi. Il magone sale di nuovo ma questa volta è diverso, non c’è amore ma bensì il peso della consapevolezza, dell’imminente disastro, dell’inevitabile tortura fisica. Vorrei tanto la fiaschetta di Mezcal, anche con il verme dentro. Vorrei tanto che il verme fosse così grande da poterlo cavalcare per tornare a casa. “Vaffaculo a ste piramidi demmerda!”. Vorrei tanto restare a dormire con loro, con i quattro cavalieri dell’apocalisse ma la mia più grande paura domina l’impulso, non posso restare, mi dico che non possiamo restare. Francesca mi chiede che cosa avessi trovato oltre lo spiazzo, me lo chiede dopo qualche minuto come se fosse chiaro solo adesso che il mondo che conoscevamo si era improvvisamente allontanato. Avrei voluto mostrarle quell’altro mondo, la mia scoperta, la mia conquista ma in realtà ci stavamo già avviando verso la strada di ritorno, la scelta era fatta. Il primo chilometro è quasi piacevole, nonostante la stanchezza abbiamo la bussola puntata nella giusta direzione e questo ci tranquillizza. “Ma che è sta cosa aò, me pare er raccordo anulare”. Qualche metro più avanti e ci troviamo davanti ad un incrocio a quattro strade del quale solamente due sono indicate e ovviamente nessuna verso Tulum. Evitiamo la direzione per Cancun, che si trova a nord della riviera Maya, mentre noi dobbiamo spostarci verso sud. “La prima a destra andrà benissimo”. Ci troviamo al centro fra due lagune, tutta la zona di Cobà è protetta da una fitta vegetazione e il caldo adesso si fa sentire. “Fra chiediamo un passaggio?”. La mia domanda è talmente sciocca che non ricevo nemmeno una risposta. La strada fortunatamente è pianeggiante ma sembra non avere fine, è una linea dritta e sottile. Intorno non c’è niente, non una casa o un chiosco ambulante, non ci sono segnali stradali, non passano macchine, non siamo nemmeno sicure di essere vive. Il tempo adesso si è fermato di nuovo, sono circa le otto di sera, siamo in cammino già da due ore ma sembra di aver appena lasciato Cobà. Camminiamo in equilibrio sulla linea sottile, in fila indiana e senza parlarsi, io penso ad Anna, vorrei sapere a cosa pensa Francesca ma non faccio in tempo a formulare la domanda che lei si volta e mi dice: “Aò ce l’abbiamo fatta.” In fondo alla linea sottile scorgiamo i grandi cartelli pubblicitari, i corsi di snorkeling e di kite surf, le tartarughe giganti. Aumentare il passo è inutile perché tanto il tempo passa come e quando vuole ma perlomeno possiamo tirare un respiro di sollievo, ce l’abbiamo fatta davvero. Ho i sandali rotti, la linea sottile mi ha bruciato la suola, cammino scalza fino a casa, cammino fino a sentire la carne staccarsi da sotto i piedi. Ancora un altro chilometro e saremmo davvero svenute per la disidratazione. Entriamo in camera facendo le scale come se stessimo di nuovo scalando la piramide, “vaffanculo a ste piramidi demmerda!”, lo penso in silenzio soltanto nell’attimo in cui vedo la condizione dei miei piedi. Lo penso in silenzio fin quando Francesca traduce il mio stato d’animo con un bel grido di vittoria: “Noi ar Messico je spaccamo er culo!”.

Benedetta Bendinelli

THREE

FACES

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